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Alessio Zuccari
FolleMente: recensione della nuova commedia di Paolo Genovese
Ci vuole un tatto fuori dal comune per trattare la sessualità, il sex working e l’intimità fisica con la spontaneità e l’ironia con le quali brillano in Anora. E quello di Sean Baker è un tatto fuori dal comune. L’autore statunitense, classe 1971, lo ha affinato nel corso della sua ventennale e bersagliera carriera cinematografica, declinata a suon di piccoli budget in favore delle frange della società più marginalizzate.
Uno sguardo premuroso, ma sempre lucido, che ha infine ottenuto il riconoscimento di un grande palcoscenico festivaliero: Anora è infatti la Palma d’oro al Festival di Cannes 2024. Un premio importante perché nobilita un’idea di cinema (a favore di chi sta nei coni d’ombra della vita) e di fare cinema (quello indipendente; il precedente Red Rocket costò attorno al milione di dollari, questo non molto più). Premio però che non cede a nessun compromesso, perché il film di Baker è folgorante, nonché uno dei migliori della sua carriera.
Anora è fiaba che declama a gran voce il suo essere impossibile, storia d’amore e di sesso, o di sesso e d’amore, tra la sex worker Ani (Mikey Madison) e lo scapestrato figlio di un oligarca russo, Ivan (Mark Eydelshteyn). Lui deve fare presto ritorno dalla famiglia in Russia e spende le sue giornate sperperando denaro in cerca di un ultimo divertimento. Lei, russo-americana, lavora in un locale notturno, in cui le viene affidato come cliente proprio Ivan perché parla un po’ della sua lingua. Scoppia così un’intesa tra i due, basata all’inizio sulla regola aurea americana dello scambio di servizi e di denaro, salvo poi tramutarsi in qualcos’altro: Ivan propone ad Ani di sposarlo.
Lei è scettica, ma poi sceglie il sì. Volano a Las Vegas e il dado è tratto. La famiglia di Ivan viene però a saperlo e si infuria, e da qui Anora si rovescia tra esilaranti fughe e sottrazioni, fraintendimenti e giri a vuoto. Sono incredibili le intuizioni con cui Baker riesce a far precipitare in ogni film i suoi protagonisti. Situazioni dai contesti assurdi e cacofonici (la sceneggiatura e i suoi dialoghi hanno una cadenza sonora ipnotica), che arrivano a coinvolgere personaggi, scritti perfettamente, tra il torbido e il farsesco. Come la ‘balia’ di Ivan, Toros (Karren Karagulian, feticcio di Baker), il portavoce in trauma cranico Garnick (Vache Tovmasyan) e lo scagnozzo Igor di Yuri Borisov (co-protagonista in un altro film amato e premiato a Cannes qualche anno fa, Scompartimento n° 6), figura che emerge in seconda battuta quasi solo con gli occhi e i silenzi.
E se anche Eydelshteyn intercetta alla grande lo stordimento puberale del suo personaggio, a cui sembra non si possa voler realmente male, la scena è tutta per lei, Ani. Per Madison è il primo, vero test della sua carriera, a cui si concede con una prova fisica e di spirito impressionanti, tra le numerose scene di ballo e di nudo sulle quali Baker ha il dono di mantenere una sensualità, un erotismo e un giocoso spuri di morbosità e male gaze.
È una morsa al cuore lo sguardo gentile che Madison dona alla sua protagonista, solcato dalla lieve increspatura delle labbra in un sorriso dietro al quale c’è un intero passato e un’intera disillusione che non esploderà mai fino all’ultima e dolorosa inquadratura, controcampo in tristezza alla commedia che l’ha preceduta per più di due ore. Perché in Anora, dramedy amarissima in cui si ride a crepapelle, convivono per tutto il tempo le due anime di questo mondo ‘basso’ in cui Baker pare riconoscere il transitare negli estremi, senza toni intermedi.
Nel film c’è almeno una sequenza, quella centrale che segna il passaggio dal credere alla fiaba al suo rapido lacerarsi, scritta, diretta e recitata con tempi e modi prossimi alla perfezione. Un quadro in rapida escalation, reso ancor più magistrale perché iscritto all’interno di una fragile dinamica che nell’arco di uno stacco di montaggio passa dall’umorismo slapstick a una percezione di abuso – tre uomini che impongono a una donna, anche con l’utilizzo della coercizione fisica, a stare ferma e in silenzio. Ed è tutta in questo snodo l’intelligenza di un autore come Baker, perché qui dentro racchiude le varie istanze che confinano, si abbracciano e poi collidono in Anora. Da una parte la possibilità, per una sex worker, di pensare di ottenere un irraggiungibile lieto fine e il riconoscimento ufficiale agli occhi della società (la ricchissima famiglia di Vanya), dall’altra il crollare del sogno e la condanna a tornare al proprio posto.
E quindi alla delegittimazione. Anche lavorativa, che, Ani ironizza col suo capo, potrebbe arrivare solo passando dal pagamento dei contributi e dall’ottenimento di un’assistenza sanitaria per la propria professione, che resta retribuita con contante sotto banco. Ci sono insomma sia l’estrema euforia che il profondo dolore, i due poli sui quali l’autore alterna costantemente per raccontare un cosmo che attraverso il suo cinema ha sempre cercato non di esaltare, ma solo di sdoganare. Di cui renderne le protagoniste e i protagonisti non più dei pària, ma semplicemente dei pari.
Anora sarà al cinema dal 7 novembre con Universal Pictures.