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Alessio Zuccari
FolleMente: recensione della nuova commedia di Paolo Genovese
Erotismo, doppi sensi, sguardi languidi, mosse tra lo sfacciato e l’audace. Babygirl della regista olandese Halina Reijn, presentato in Concorso al Festival di Venezia 2024, è una partita a scacchi beffarda e tremendamente consapevole dei meccanismi di potere tra il brivido e il buffo che si sceglie come poli tra cui transitare. Babygirl è anche un gioco di ruolo, il cui campo di sfogo è il luogo di lavoro in cui Romy (Nicole Kidman) è vertice, CEO di una società che si occupa di automazione. Ci sono gerarchie, ci sono uffici in cima ai grattacieli, ci sono feste aziendali, nella declinazione da bignami della perfetta corporazione statunitense. Ci sono pure gli stagisti: tra questi Samuel (Harris Dickinson), ragazzo trasandato ma bello, sicuro di sé, forse anaffettivo.
Ha la metà degli anni di Romy (pensateci: sul gap d’età in una coppia si pontifica solo nel verso donna-uomo, ed è la prima pulsione su cui lavora il film), ma non è una cosa che le impedisce di invaghirsi del fascino ferino di questo nuovo arrivato che doma e riconosce gli istinti più sopiti con un solo e glaciale sguardo. Romy però ha una famiglia, un marito adorabile (l’azzeccatissimo Antonio Banderas) e due figlie adolescenti (Esther McGregor e Vaughan Reilly). Eppure c’è poco da fare, al brivido non si comanda.
Allora Babygirl prende questi due e li frulla in una passione scomposta dove lei riscopre, o forse scopre davvero per la prima volta, una parte di sé che nel talamo coniugale non è mai riuscita a condividere. Le piace, a letto, sentirsi in balìa del controllo altrui, e Samuel, nella faccia di Dickinson mai così da schiaffi (o Balenciaga, per citare il Triangle of Sadness di Ruben Östlund che ce l’ha fatto scoprire una volta per tutte), non perde un istante sin dal loro primo incontro per farle capire che lui ha capito.
Ma a Babygirl non imputate di essere ciò che non è. Un film dalla sceneggiatura, firmata sempre da Reijn, tutta in set-up e pay-off, in semina e raccolta, dislocati in una traccia semplicissima, lucida, persino lineare che alza la posta in gioco, del racconto e della liaison, con l’idea sottesa di una dinamica ad orologeria pronta a scoppiare da un momento all’altro. In particolare se la si associa al rigore statunitense, paranoico e rigoroso nel post MeToo, riguardo il rispetto delle norme di comportamento in ambito lavorativo.
E se sulla carta la solleticazione da brivido tra il sessuale e sensuale di Romy con Samuel non si concede come intuizione sconvolgente, la carta vincente Reijn la trova nel non cercare di inseguire nemmeno per un istante l’idea del pruriginoso avvinghiato alla fatalità alla Adrian Lyne (è una falsa pista), bensì quella del coinvolgimento giocoso, ironico e soprattutto autoironico. È un colpo di mano teso a smascherare gli attentati in moralismo, come quello inconscio del marito Jacob, impossibile da colpevolizzare nella sua ingenuità in realtà molto accondiscendente e pronta, anzi, ad imparare – magnifica una scena verso il finale tra i tre protagonisti.
Perché Babygirl non ha interesse alcuno a scioccare o scandalizzare (ci si può ancora realmente scioccare e scandalizzare parlando di kink e desideri sessuali nel 2024? Essù), fa invece di tutto per includere, coinvolgere, esprimere e insegnare ad esprimersi. Si parla più di quanto si copuli, in talvolta esilaranti e di certo sexy scambi e battibecchi sul cosa uno voglia ottenere dall’altro – il sesso è ludico, basta stabilire le regole.
Ma questo di Reijn è pure un film d’esorcismo per il corpo attoriale di Kidman, che nell’impressione estetica ritoccata dal botox della sua Romy si ritrova con una sorta quasi di alter ego. Si commenta insicura riguardo il proprio fisico e la assalta a riguardo con la sua molesta inafferrabilità persino Samuel («Hai l’aspetto di una madre»). Ed è interessante che un’attrice che nel corso della sua carriera abbia a lungo risentito a livello professionale delle sue decisioni in merito al proprio corpo e al proprio aspetto fisico arrivi a mettersi così tanto al servizio di un’opera, e di una regista, che nel parlare di Romy parla in fondo anche inevitabilmente di lei. Attraverso una vibrazione, quella erotica, che Kidman conosce bene dai tempi di Eyes Wide Shut e con cui si riappropria definitivamente della propria immagine. Lasciatevi allora solleticare. Se gridate alla vergogna, o vi imbronciate, state sbagliando angolo di visione: provate a cambiare posizione.