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Alessio Zuccari
Biancaneve: recensione del film live action con Rachel Zegler
Tags: biancaneve, gal gadot, Marc Webb, rachel zegler
A un certo punto c’è stata la sensazione che questo nuovo Biancaneve non lo volesse davvero nessuno. Non il pubblico, scagliato alla rinfusa contro il film diretto da Marc Webb su innesco delle accuse di color-blind casting (i cambi di etnia nel cast di personaggi), delle parole della protagonista Rachel Zegler che auspicava un aggiornamento della fiaba originale dei Grimm, delle modifiche paventate sui Sette Nani e quelle effettive alla trama. E che non lo volesse nemmeno più tra i piedi la Disney, che ci sta lavorando dal 2016, anno in cui venne ingaggiata la sceneggiatrice Erin Cressida Wilson, e che si è adoperata a blindare marketing e comunicazione stampa dell’opera soprattutto a causa degli attriti tra Zegler e la coprotagonista Gal Gadot, con la prima schierata apertamente contro Donald Trump e a favore della Palestina, mentre la seconda, israeliana, a strenuo supporto dell’azione di Israele su Gaza.
Insomma, non il quadro ideale auspicato per l’arrivo di uno dei progetti di punta della Disney di questi anni, adattamento live action della leggendaria pellicola animata del 1937, Biancaneve e i Sette Nani. Alcune carte in tavola vengono in effetti scombinate, con l’intento sacrosanto di riconfigurare le direttrici del film in accordo alle nuove sensibilità del presente. Ma se c’è un vero problema, sta nel fatto che Biancaneve lo faccia addirittura troppo poco.
A grandi linee, la storia rimane più o meno quella nota. In un reame distante, c’erano una volta un re, una regina e la loro figlia, Biancaneve. La regina un giorno si ammalò e morì, così padre e figlia rimasero soli e amati dai propri sudditi. All’improvviso arriva però un’affascinante dama (Gadot) che seduce il re e ne diventa moglie, fino a quando quest’ultimo parte per una missione dalla quale non fa più ritorno. La dama, ora Regina Cattiva, governa con pugno di ferro ossessionata solo dalla ricchezza e dalla sua bellezza, relegando una cresciuta Biancaneve (Zegler) nelle mura del palazzo fino a quando tutti non si dimenticano di lei.
Da qui in poi il copione di Wilson procede su un canovaccio simile alla storia che un po’ tutti conosciamo. Ma se quella delle principesse Disney è una fonte sempreverde dalla quale attingere, ben altra faccenda è quella che lega oggi la principessa all’idea di principe azzurro. Che in questa occasione non c’è e quindi non corre in salvo di Biancaneve, rimpiazzato dalla figura del furfante ribelle Jonathan (Andrew Burnap). Un personaggio che mantiene i tratti d’onore e d’animo cavallereschi à la Robin Hood, il cui ruolo è ben più tarato attorno alla protagonista e al suo agire.
Nell’opera animata del ’37 Biancaneve era infatti, senza girarci troppo attorno, una protagonista estremamente passiva. Le cose le accadevano ed erano altri – gli uomini – a risolverle per lei. Il film di Webb aggiusta da questo punto di vista gli equilibri rendendo Biancaneve effettivamente centrale nel proprio racconto. Proprio in virtù di ciò si modifica la struttura di una storia che non rinuncia a certi simbolismi radicati (il bacio del vero amore), ma che in particolare nella risoluzione degli eventi conduce a un ripensamento di chi e come affronta la Regina Cattiva, trasferendo il tutto da una questione individuale ad una collettiva.
Nel farlo la sceneggiatura di Wilson appare però estremamente approssimativa negli snodi narrativi, semplicistica nelle dinamiche (ben più di quanto richieda un racconto a portata di fanciullo) e sbadata nella gestione dei personaggi. Dalla new entry Jonathan, utilizzata in fretta e furia come interesse amoroso e poi lasciata nelle retrovie – cosa che, pensata a dovere, sarebbe anche interessante –, per arrivare ai Sette Nani (realizzati in CGI a partire dalla motion capture), compagine buffa e in questa occasione decisamente più accessoria.
Nell’essere accorto nel dare una voce a chi prima non l’aveva (chissà che un personaggio notoriamente muto stavolta non arrivi a parlare), Biancaneve è in realtà molto più lineare e conservativo di quanto gli araldi dell’Apocalisse-woke urlavano dietro le loro chat. Si veda ad esempio il discorso attorno alla bellezza, il tormento che corrode dentro e fuori la Strega cattiva e che la conduce a fare quello che poi fa. Tiepidamente archiviato nella cornice del ‘essere belli nell’animo’ (il fulcro tematico di tutta la faccenda, dopotutto), in nessuna maniera è però approcciato come una questione sopra la quale andare a condurre, magari, una riflessione su cosa rappresenti oggi nella nostra società la bellezza e in particolare quella femminile. Soprattutto a ridosso di un anno in cui abbiamo visto uscire nei cinema un film come The Substance – chiaro: distante mille miglia per genere, impostazione, target.
A metterci del suo è quindi soprattutto Zegler, attrice di vera risma ed empatia nonostante momenti musicali non particolarmente memorabili (qui ci esprimiamo con riserva, poiché ci è stata data occasione di visionare solo la versione doppiata del film) e un’impostazione estetica del film ispirata solo per piccolissimi tratti, come nei brevi riflessi cupi e gotici ad inizio e fine pellicola. Per il resto c’è poco per cui indignarsi realmente, così come non c’è nemmeno molto a cui concedere il plauso.