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Alessio Zuccari
Comandante, recensione del film di Edoardo De Angelis con Pierfrancesco Favino
Tags: comandante, edoardo de angelis, pierfrancesco favino, venezia80
Comandante è cinema popolare. Lo testimoniano ancor prima dell’inizio del film i titoli di testa, in cui si elencano le molte case produttrici che hanno partecipato allo sforzo produttivo, di circa 15 milioni di euro. Lo testimonia, poi, la scelta del volto protagonista, quello di Pierfrancesco Favino, onnipresenza del cinema italiano e uno dei pochi tratti riconoscibili – e quindi spendibili – anche sul fronte internazionale.
E in quanto cinema popolare, l’opera di Edoardo De Angelis, film d’apertura del Concorso del Festival di Venezia 2023, è anche cinema politico. Le due cose vanno di pari passo. Quando le si vuole fare bene, in realtà non possono fare altrimenti. Allora la vicenda del comandante della Regia Marina Salvatore Todaro non può essere solo la rievocazione biografica di un evento della Seconda Guerra Mondiale.
Comandante non racconta, insomma, solo dell’inaspettato salvataggio di 26 membri dell’equipaggio del Kabalo, mercantile battente bandiera belga (ma con armamenti inglesi in stiva) affondato dal sommergibile capitanato da Todaro e poi raccolti in mare da quella stessa imbarcazione, sempre su ordine di Todaro. No, è chiaro che Comandante, scritto da De Angelis assieme a Sandro Veronesi, sfrutti il volano della storicità per slanciarsi, per farsi iperbole metaforica. È ben leggibile in superficie il filo che vuole tirare con la nostra contemporaneità.
È reso evidente dal nostro quotidiano, fatto delle molte, troppe immagini di disperazione di gente trascinata in balìa delle onde su barche e barchini, di naufragi sulle spiagge, di freddi e anestetizzati dialoghi sul bloccare questo o quel flusso migratorio. Quello di Comandante non è un intento nascosto, non è una linea interpretativa da scavare tra i simbolismi. È lì, vuole essere colto. A un primo sguardo sembra audace, quasi incosciente, risalire quindi la corrente del tempo e scegliere proprio un personaggio come quello di Todaro, militare sotto il regime fascista, per creare il parallelismo.
Sta qui, però, il grimaldello che De Angelis e Veronesi sfruttano in maniera molto intelligente. Todaro è un figlio dei suoi tempi. Ha i suoi valori, presenta le sue contraddizioni, non può staccarsi dall’idea del navigare nemmeno quando a causa di un incidente rischia di ritrovarsi a bagnare solo nell’acqua della sua vasca. Non ci rinuncia nemmeno quando la moglie Rina (Silvia D’Amico) gli offre la possibilità di una vita lontana dall’orrore della guerra, dove far crescere il loro figlio. Todaro è un uomo con le sue ruvidità, il film non le nasconde, nemmeno quando rigetta in un grigio leggermente di comodo la più spigolosa delle accuse – «Fascista? Io sono uomo di mare» risponde il comandante quando alcuni dei naufraghi ne vorrebbero inchiodare l’ideologia.
Che sia definito apertamente camerata o meno, di certo Todaro vive di cameratismo, del rapporto gomito a gomito nello spazio ristretto del sommergibile (interamente ricostruito) che De Angelis gestisce con una invidiabile consapevolezza registica. È un uomo di valore che compagni d’arme e sottoposti guardano con ammirazione. Lo chiamano Mago Baku, l’asceta, il fachiro, in virtù della sua fissazione per misticismo e destino (dopotutto si chiama Salvatore, nomen omen). Ha un forte ascendente e suscita rispetto nelle persone che lo circondano.
Allora eccola qui, a partire proprio dalla sagoma di questa figura, l’operazione che Comandante mette in piedi per squalificare la crudezza di una contemporaneità politica e sociale fatta di persone e politicanti che sbraitano alla dignità umana. Se un uomo come Todaro, figlio degli insegnamenti dell’Italia fascista, inquadrato nelle forze armate al comando del Duce più di ottant’anni fa, riesce a scindere politica, guerra e valore della vita umana, in ragione di quale confine o invasione possiamo noi trovare la scusa per commiserarci di fronte all’ennesima strage di mare?
Si badi, quello del film non è, o perlomeno non dovrebbe essere, un j’accuse solo al preciso colore politico che governa l’Italia in questo preciso momento storico. Perché in questo gioco al massacro sulla pelle dei disperati ha partecipato la complicità, più o meno indiretta, di tutti quanti. Con questo colore politico, però, echeggia tragica e svilente l’ignominia di chi si professa figlio dell’eredità italica (sì, anche di quella fascista) e calpesta forte di ciò il valore della vita umana, quando già nel 1940 esisteva però un Salvatore Todaro.
La compostezza e la pulizia con le quali De Angelis scandisce la costruzione dell’immagine del suo protagonista, delle sue credenze e del suo rapporto con l’equipaggio (tra cui il feticcio del regista Massimiliano Rossi) non cannibalizzano mai la stoccata che arriva – forse con un pelo di ritardo – nella seconda parte del film, quella effettivamente dedicata al salvataggio. È cinema intelligente quello di Comandante, perché indovina i modi e i tempi del racconto, perché mette a fuoco le ipocrisie del presente sgonfiandole con il portato del passato. Perché parla ai molti, forse pure a quelli che non vogliono sentire o vedere, sconfessando le loro convinzioni di cartapesta con la spuma di un’onda.