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Martina Barone
Da You a Dahmer: il gioco tra serial killer e empatia nelle serie Netflix
Tags: Dahmer, netflix, you
Il fascino per il male ha da sempre avuto quella presa in più. È indubbio che introiettare la nostra attrazione verso prodotti audiovisivi e mainstream abbia come significato il voler attingere da un bacino oscuro e perverso che non vorremmo mai vivere nella quotidianità a schermi spenti, ma che troviamo intrigante e coinvolgente quando si tratta di vederci tale malignità pronta e confezionata. Che siano storie vere, che siano di pura invenzione.
La curiosità che ci suscitano le nefandezze umane è pari alla risonanza che tali prodotti riescono a raggiungere nella fruizione intrattenitiva o informativa di tutti i giorni, in cui al sicuro nelle nostre case o protetti dal mondo esterno grazie alle cuffie nelle orecchie ci isoliamo mentre guardiamo programmi al limite dello scabroso o ascoltiamo podcast di true crime.
Quello che, con lati assai più smussati, potrebbe venir associato a un autentico feticismo, è in realtà il semplice affrontare turbe e sentimenti che solamente tramite la protezione di un contenitore gestito da una mano al di fuori siamo sicuri di poter affrontare. A volte molto più spaventoso di qualsiasi racconto dell’orrore, poiché riconducibile alla realtà e alle varie insidie che può nascondere.
Una maniera per avvicinare poi il pubblico a questa tipologia di narrazioni è arrivata direttamente da una piattaforma come Netflix, che pur non apportando modifiche considerevoli e nemmeno rivoluzionando il modo di scrivere di tali storie, ha comunque scovato e approfondito una metodologia con cui fare presa sui suoi spettatori.
Non affidandosi più solo al punto di vista dei protagonisti/vittime, non associando lo sguardo del pubblico a quello di un personaggio principale che si approccia ai territori del racconto e lo indaga rimanendo però dalla “parte bianca” della narrazione, Netflix ha messo al centro il criminale e lo ha reso il fulcro da seguire nelle sue efferatezze. Il protagonista per antonomasia, il personaggio quasi a cui affezionarsi, di cui ci mostra non solo gesti e esecuzioni, ma pensieri, emozioni e moventi.
Non è un caso che Dahmer abbia suscitato in certi spettatori lo sdegno nei confronti di una rappresentazione quasi permissiva nei confronti delle azioni e delle svolte intraprese nella vita dal cannibale di Milwaukee. E che proprio per questa ammirazione, seppur legata solamente all’ambito seriale e quindi anche quello finzionale, Jeffrey Dahmer sia diventato nel 2022 un’icona del web tanto da essere ammirato per lo stile e venendo imitato nell’aspetto.
Certo è che sempre il Dahmer di Ryan Murphy si è avvalso anche di un’altra componente di cui i prodotti sui serial killer devono e possono puntare per restituire un quadro completo delle motivazioni dietro alle uccisioni e agli atti osceni perpetrati su una e più vittime. La miniserie ha fatto infatti luce su un passato già all’apparenza segnato per quel ragazzino abbandonato dalla madre e poco compreso dal padre, che sentiva anche di dover opprimere la propria sessualità e andando a scagliarsi poi proprio contro gli stessi appartenenti della sua comunità.
Un disagio interiorizzato che butta una luce analitica sull’uomo e la sua fame, ma che è comunque difficile da ergere a totale lasciapassare per quella che è un’entrata in empatia che la serie vorrebbe suscitare in un collegamento auspicato tra personaggio e pubblico.
Le ragioni con cui Mindhunter ci ha insegnato a leggere i serial killer diventano materiale narrativo da maneggiare a favore dei protagonisti/assassini così da spingere lo spettatore a entrare a far parte di un club di cui, seppur non si sarebbe mai membri nella realtà, riesce comunque a superare le barriere del pudore e diventare virale su internet. Altro esempio lampante è l’ideazione e la distribuzione sulla finestra streaming di una serie di successo come You, basata sul romanzo omonimo (e sul seguito) di Caroline Kepnes, e diventata uno dei titoli di punta di Netflix.
Una serie che pone come centro il protagonista Joe (Penn Badgley) e la romanticizzazione delle sue ossessioni nei confronti delle ragazze di cui si innamora. Il diario di uno stalker su cui gli ideatori Greg Berlanti e Sera Gamble hanno sempre giocato mettendo al centro la recriminazione degli atti osceni perpetrati da Joe, eppure lasciando in sottofondo la possibilità per il pubblico di rimanerne conquistati.
Un magnetismo avanzato con sottigliezza, che non ha però mancato di generare anche in questo caso una schiera di fan del protagonista, tanto da esaltarne un presunto lato sentimentale. Un testo seriale, quello offerto da Netflix, che vuole proprio creare questo equivoco sperando che sia poi lo spettatore a cogliere il confine tra ciò che è permesso e la caduta nell’illegalità. Non sbilanciandosi comunque mai nel prendere una posizione netta così da poter continuare a mantenere intatto lo charme di Joe Goldberg, e proseguendo con una trasformazione graduale delle stagioni cercando di ribaltarne la posizione, tanto da renderlo nella quarta e ultima lui stesso la persona osservata.
È un intrattenimento subdolo e pericoloso quello su cui ha puntato Netflix e, visto il chiacchiericcio ogni volta ricevuto, su cui potrà continuare a tentare. Espedienti che non incitano all’emulazione, ma che è bene stare attenti a elaborare con accortezza, ricordandoci che l’audiovisivo può essere un canale di comunicazione potente e che bisogna perciò stare attenti a come utilizzarlo.