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Martina Barone

Dahmer su Netflix | Tra verità, trend e social media: perché tutti ne parlano?

Tags: Dahmer, evan peters, netflix
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Martina Barone

Dahmer su Netflix | Tra verità, trend e social media: perché tutti ne parlano?

Tags: Dahmer, evan peters, netflix

La serie Dahmer di Netflix ha suscitato scalpore, tra le discussioni sull’empatia che può suscitare il personaggio alle tendenze sui social

Che cos’è Dahmer. Arrivati a questo punto la maggior parte di voi lo saprà benissimo. Si tratta della serie Netflix che ha preso il caso del mostro di Milwaukee e l’ha riportato secondo una narrazione episodica all’interno del catalogo delle sue produzioni. Un lavoro che vede continuare la collaborazione tra Ryan Murphy e la piattaforma streaming, stavolta non ennesima operazione rimasta nell’angolo o poco apprezzata dal pubblico, bensì enorme successo per gli eventi scabrosi e la maniera in cui li ha riportati nel corso delle puntate. Ad aggiungersi alla scia di notorietà della serie è da nominare anche il suo protagonista Evan Peters, che nel vestire i panni del pluriomicida Jeffrey Dahmer allunga la sua lista di ruoli contorti e complessi, di cui non fa stancare lo spettatore rivelandosi ogni qualvolta impeccabile.

Ma il frastuono che Dahmer ha fatto rombare per tutta la sfera della serialità è dovuto alla scia mediatica che ha seguito la sua uscita sulla finestra streaming e ha confermato, come visto con le polemiche sul film Blonde, quanto sia anche il frastuono intorno a un prodotto ad alimentare il successo e la chiacchiera, così da poterlo portare fino al più largo pubblico. Prima però di addentrarsi nelle questioni di cui la serie è stata oggetto, è bene ripercorrere e analizzare la fattura di una produzione che seleziona un tema delicato e fragile da trattare come fosse di cristallo. Una materia da dover maneggiare con cura maniacale, tanto per chi rimase coinvolto nell’orribile vicenda del serial killer americano, quanto per i nervi scoperti che è capace tutt’ora di toccare.

Di cosa parla Dahmer

Dahmer sono gli anni dall’infanzia all’arresto dell’uomo accusato di un numero elevatissimo di uccisioni. È l’introduzione fatta dalla serie con una prima puntata che sceglie di focalizzarsi sulla fuga di una potenziale vittima riuscita a svincolarsi dal modus operandi e dal delirio omicida dell’uomo. Un voler concentrarsi sui vari passaggi con cui Jeffrey Dahmer riusciva a portare nella sua casa coloro che da quelle quattro mura non sarebbero mai più usciti e che il killer avrebbe fatto a pezzi per poi fotografarli e mangiarli. Un intero episodio che vuole lo spettatore lì, in quella dimora, teatro di un orrore perpetrato per anni e che inizierà ad essere indagato dalla seconda puntata in poi. 

La serie non ha perciò un’andatura regolare, creando collegamenti testuali tra i vari momenti della vita dell’uomo/personaggio per mettere a confronto ciò che era da piccolo, come è stato educato da grande e, infine, come e cosa è diventato. Un lasso temporale esteso che giunge fino all’aula degli interrogatori della polizia che lo ha arrestato, dando un quadro preciso e dettagliato di chi era Jeffrey Dahmer.

Tra social, apparenza e tendenza

Dahmer
Credits: Netflix

Nella fiera di orripilanti torture che l’uomo ha perpetrato su corpi vivi o meno nel corso della sua esistenza, Dahmer è stato centro di dibattiti e discussioni per le contraddizioni e i feticismi che hanno reso nota la serie. Delle conseguenze intuibili visto il portato scioccante che il prodotto sceglie di mettere in scena non volendo oscurare o mitigare nulla, pur non scadendo d’altra parte nell’ossessione del tetro, ma che se in alcuni casi nutrono delle riflessioni che possono contribuire alla comprensione del genere umano e delle sue scabrose azioni, in altri rischiano di sfociare in perversioni allarmanti seppur goliardiche.

Il personaggio di Jeff è stato infatti centro di attenzioni da parte del web che ne esaltavano l’aspetto fisico, le quali si focalizzavano sullo stile e su come appariva, oltrepassando totalmente le gesta inimmaginabili di cui è stato capace. Osservazioni preoccupanti che sarebbero potute rimanere nel silenzio, se non fossero partiti trend e tormentoni che hanno invaso i social media, portando le persone a non provare eccessiva vergogna o rimorso nell’affermare di trovare attraente il serial killer. Passione alimentata senz’altro anche dal fascino che da anni esercita lo stesso attore Evan Peters, ma che si è spinto stavolta oltre, non portando le persone a ragionare sul distacco che sarebbe il caso di provare tra le proprie pulsioni e ciò che sta cercando di dirci un’immagine. 

Traumi, infanzia e crudeltà

Dahmer
Credits: Netflix

Passati dall’inquietante mania per Jeff Dahmer, che è stato così avvicinato idealmente alla figura di Ted Bundy, le tavole rotonde online si sono accese attorno alla rappresentazione dello sviluppo del protagonista dalla giovane età fino al suo essere scoperto. Pur ponendo una necessaria distanza tra ciò che è riportabile all’umano e ciò che invece è mostruoso, nel proporre il legame con i genitori la serie è stata accusata di cercare la compassione dello spettatore e il suo favore. Tentativo che Netflix non considera minimamente, e che mostra quanto sia ancora difficile capire che ciò che diventiamo da adulti è il prodotto di come veniamo trattati in casa e dalla società.

Pur avendo da sempre manifestato atteggiamenti che avrebbero dovuto far accendere una spia e che è innegabile appartenessero a una dimensione inquietante da dover approfondire, è inevitabile notare come l’influenza dei genitori e del continuo senso di abbandono che gli hanno lasciato ha accentuato le nevrosi e l’instabilità del Dahmer ragazzo diventato poi uomo. Gli psicofarmaci della madre, la trascuratezza del padre, le loro litigate con coltelli puntati contro e offese urlate, sono state una parte dell’esistenza dell’individuo e ne hanno condizionato l’evoluzione e l’identità. Come l’omosessualità repressa, condotta ad un’esplosione che ha macinato decine e decine di vittime. Questo senza mai vedere la serie giustificare l’omicida, agendo come ha insegnato Mindhunter ossia ricostruendo il quadro della vita di Jeffrey Dahmer. L’evidenziare i punti critici che ne hanno influenzato il comportamento e accentuato le perversioni, non volendolo redimere o cambiare il punto di vista mediatico e del pubblico.

Dahmer: dal cinema alla serialità

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Credits: Netflix

È stata poi la privacy un’altra fonte di alterazione nei confronti di Dahmer, con persone realmente esistite che si sono dichiarate risentite per la maniera in cui sono state riportate mentre altre ancora, profondamente toccate dalla perdita che l’uomo ha causato loro, hanno trovato nell’operazione Netflix solamente un modo per trarre vantaggio dalle disgrazie altrui. In realtà, però, quella di Dahmer non è la prima comparsa dell’assassino nel mondo dell’audiovisivo. 

Era il 2002 quando Jeremy Renner interpretò il serial killer nel film Dahmer – Il cannibale di Milwaukee, a distanza di pochi anni rispetto agli accadimenti della vita reale, per un’opera che mette in forma cinematografica il periodo culmine degli omicidi dell’uomo. Mentre è del 2017 la pellicola My Friend Dahmer in cui il protagonista viene impersonato da Ross Lynch all’epoca della sua adolescenza, per arrivare sul finale a dare l’accenno di cosa sarebbe avvenuto poi. Con l’arrivo di Dahmer su Netflix la panoramica sul serial killer si allarga, puntando sull’esplorazione approfondita della personalità e delle sue follie, investigandone anche i traumi del passato. La somma di due momenti che il cinema aveva esplorato per condensarli insieme in una serie che è ovvio susciti tanto clamore, avendo saputo scovare l’equilibrio giusto tra fatti di cronaca e intrattenimento, tutto ai confini del macabro. 

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