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Alessio Zuccari
FolleMente: recensione della nuova commedia di Paolo Genovese
“Trent’anni fa, un produttore mi disse che ero un’attrice da popcorn. A quel tempo, ho pensato che ciò significasse che questo non era qualcosa che mi era permesso avere. Che potevo fare film di successo e che facevano un sacco di soldi, ma che non potevo essere riconosciuta”. Questo è forse il passaggio più importante nel discorso di Demi Moore in occasione dei Golden Globes 2025, cerimonia in cui l’interprete statunitense originaria di Roswell è stata premiata con il riconoscimento alla Miglior attrice in un film commedia o musicale per The Substance di Coralie Fargeat (qui la nostra recensione).
Un premio che, come dice Moore, arriva a coronamento di una carriera che per molto tempo è sembrata instradata altrove. Star di rilievo tra gli anni Ottanta e soprattutto Novanta, l’attrice è stata infatti considerata a lungo un sex symbol per opere da vetrina o ad alto tasso d’erotismo. Pensiamo a film iconici come Ghost di Jerry Zucker (1990), Proposta indecente di Adrian Lyne (1993, che l’ha consacrata definitivamente), Rivelazioni di Barry Levinson (1994), La lettera scarlatta di Roland Joffé, indubbiamente Striptease di Andrew Bergman (1996).
Proprio in quel periodo Moore venne ribattezzata Demi goddess (un gioco di parole per semi-dea), ma iniziò anche ad essere cassata come attrice di scarsa qualità. Del 1996 e del 1997 sono infatti anche i “riconoscimenti” dei Razzie Award quale peggior attrice per Il giurato di Brian Gibson, Striptease e Soldato Jane di Ridley Scott. E sempre a partire dalla fine degli anni Novanta inizia un lento, ma progressivo e precoce, allontanamento dalle principali scene recitative, che culmineranno in ruoli sempre più sporadici e sempre di minor livello nel corso del primo quarto di secolo degli anni Duemila – nel 2003 un altro Razzie Award per Charlie’s Angels – Più che mai.
Il pensiero che i giochi fossero finiti “mi ha corroso nel tempo, al punto che qualche anno fa ho pensato che questo era quanto” confessa Moore. “Forse il cerchio era completo, forse avevo fatto ciò che dovevo fare”. Perlomeno fino a quando non è arrivata alla sua attenzione, inaspettata, la richiesta per il ruolo di The Substance, dove l’attrice interpreta proprio un’ex diva di Hollywood rimasta nel dimenticatoio e che si trova a confrontarsi con una versione più giovane e prestante di se stessa (Margaret Qualley).
“Mentre ero in un momento di sconforto, mi è capitato sulla scrivania questo copione magico, audace, coraggioso, fuori dagli schemi, assolutamente folle, chiamato The Substance” racconta ancora una Moore molto emozionata. “E l’universo mi ha detto: ‘Non hai finito’.” Il film di Fargeat in fondo discute con un brillante intreccio il ruolo delle aspettative, dell’immagine e della percezione del sé. Un incrocio di temi che gioca un ruolo cruciale nella maniera in cui il personaggio protagonista si specchia nella carriera e nel vissuto personale di Moore. Che poi ringrazia “tutte le persone che mi sono state accanto, specialmente le persone che hanno creduto in me quando io non credevo in me stessa”.
“In quei momenti in cui pensiamo di non essere abbastanza intelligenti o abbastanza carine o abbastanza magre o abbastanza di successo o fondamentalmente non abbastanza, io ho avuto una donna che mi ha detto: ‘Sappi che non sarai mai abbastanza, ma puoi conoscere quanto vali se solo abbassi il metro di misura’.” prosegue l’attrice. E infine Moore chiude il suo discorso con una sentita dedica al proprio percorso: “E così oggi celebro questo premio come un segno della mia completezza, dell’amore che mi guida e per il dono di fare qualcosa che amo e con il quale ricordarmi di appartenere a qualcosa”.