Top News, Film in uscita, Recensioni

0
Alessio Zuccari
El Paraíso: recensione del film di Enrico Maria Artale
Tags: edoardo pesce, El Paraíso, Enrico Maria Artale, Margarita Rosa De Francisco
Cosa rappresenta questo nome, El Paraíso, evocato sin dal titolo dell’ultimo film di Enrico Maria Artale? A un certo punto lo si trova impresso su un barchino che Julio Cesar, un sempre ottimo Edoardo Pesce, sta sistemando nel giardinetto della sua casa, dall’aspetto curioso e forse abusivo, sul periferico litorale laziale. È un barchino che poi solca l’acqua per fare la spola tra gli sgangherati locali che quest’uomo di quarant’anni frequenta assieme alla madre, Margarita Rosa de Francisco, vincitrice del premio alla miglior attrice nella sezione Orizzonti del Festival di Venezia 2023.
Più avanti nel film che Artale scrive e dirige – anche lui premiato a Venezia con la miglior sceneggiatura – si scopre che El Paraíso sta in realtà ad altro, ad un luogo distante, in quella Colombia a cui Julio Cesar appartiene senza però esserci mai stato. Da lì viene sua madre, che mescola spagnolo e traballante italiano in un vortice linguistico in cui trascina il figlio e già dice molto della relazione che li riguarda. Abitano insieme e sono l’uno solo in funzione dell’altra. La madre, che non ha nome nel film, lo tiene stretto a sé con scuse e leve morali, e Julio Cesar, che guarda i porno in camera e reagisce da eterno adolescente, non ha la forza di smarcarsi. Sullo sfondo, il grigiore di un mondo di traffichini e cocaina che una vera alternativa a questo barlume di calore sembra non poterla offrire.
Qui El Paraíso articola un racconto verace e di pancia, scritto e interpretato con grande piglio soprattutto nella prima parte, che fa del morboso del rapporto al centro dell’opera una disamina dolente ma non psicologicamente angosciante. Non usa infatti la facile retorica del soffocamento, nonostante il tema sembri portare in quei lidi e per di più Artale scelga in regia di girare quasi esclusivamente con camera a mano. Ma questa grammatica della prossimità ai corpi (notevole come Pesce ponga il suo fisico massiccio e fisiologicamente minaccioso al servizio del dialogo di prossemica con de Francisco) e ai volti dei due protagonisti non è strumento di asfissia.
È volontà partecipativa alle dinamiche che caratterizzano il legame tra Julio Cesar e sua madre, di inserimento fisico nel dialogo che instaurano nello starsi vicini e nel guardarsi. Chiaro è che sia poi un legame sbilenco, esclusivo, financo castrante. La scena della visita dal medico di Julio Cesar sottolinea, forse anche un pelo troppo, il trattarsi di una sua tardo-puberalità, sulle cui traiettorie narrative il film quasi attinge da un distorto coming of age nel momento in cui entra in gioco il personaggio di Ines (Maria del Rosario), mulo per lo spacciatore locale (Gabriel Montesi) di cui Julio Cesar si invaghisce e con cui crea un terzo polo che suscita l’ossessiva gelosia materna.
Nel desiderio di Artale di mantenere il più possibile carnale, e quindi distante dal cerebrale, le derive relazionali, fondamentale è quindi poi il ruolo della musica ascoltata e praticamente sempre danzata dai protagonisti. C’è lungo tutto il corso del film e si pone a commento delle vicinanze e delle distanze, degli imbrigliamenti e degli orizzonti di fuga. Proprio come accade nei momenti chiave di El Paraíso e in particolare nel liberatorio finale, che arriva a dire il vero forse un pelo stanco, stirato, dopo un grande evento che sconvolge – non senza coraggio – gli equilibri drammaturgici a due terzi del film.
Nel mezzo c’è di certo il grande lavoro di intesa tra Pesce e de Francisco, struttura ossea e sanguigna, perfettamente allineati in chiave tonale nel restituire le distorsioni di una dipendenza insana, di un grande malessere fatto di atti estremi ed un’estrema ricerca d’amore. Da coltivare, circoscrivere e a un certo punto, forse letteralmente, interiorizzare dentro di sé.
El Paraíso è al cinema dal 6 giugno con I Wonder Pictures.