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Alessio Zuccari
Europa centrale: "Con le ideologie dobbiamo sempre stare sull'avamposto"
Tags: 42TFF, Europa centrale, Gianluca Minucci, Paolo Pierobon, Tommaso Ragno
“Io nella vita sono un docente di scuola pubblica di storia e letteratura italiana, quindi vivo tutti i giorni un certo tipo di educazione e di attenzione verso qualsiasi forma di ideologia totalizzante e di irrazionalismo. La sento come una responsabilità morale”. Gianluca Minucci, classe 1987, inizia così a raccontare il percorso che l’ha portato a esordire al lungometraggio con Europa centrale (qui la nostra recensione), film presentato nel relativo Concorso del Torino Film Festival 2024. Una pellicola che racconta di due spie in viaggio a bordo di un treno nell’aprile del 1940. Uno è un comunista, l’altro è un fascista.
“La storia del Novecento a livello drammaturgico ti offre delle dinamiche molto ricche, molto tragiche, perché inevitabilmente chi ha vissuto quel periodo era costretto a fare delle scelte di vita, a scegliere ad esempio tra l’amore e la fedeltà al partito. Soprattutto se eri donna. Mi viene in mente un romanzo di Vasilij Grossmann, Vita e destino, dove la vita è vincolata e contrapposta al destino del partito, che distrugge la componente esistenziale dell’individuo”. Europa centrale è allora sì un film con sul fondo una storia di spionaggio, ma racconta soprattutto della scissione interiore e paranoide alla quale vanno incontro i personaggi di Umberto Cassola e Guido Clerici, interpretati rispettivamente da Paolo Pierobon e Tommaso Ragno.
“Io sono un cefalgico cronico e soffro di emicrania a grappolo” continua Minucci, “e volevo fare proprio questo, un film sotto emicrania, infastidito. Per chi soffre di questa malattia ogni rumore e ogni luce è come se fossero dieci mila pugnalate attorno all’occhio. Ecco, quella era la vita sotto i regimi totalitari. Era stare in un costante senso di emicrania, di fastidio, di dolore, di paura, di angoscia. E dunque la forma così espressionista di Europa centrale prende un elemento visivo, sonoro, attoriale, e lo tira come un elastico”.
“Cassola è un uomo che crede di sapere” ci racconta invece Pierobon a proposito del suo personaggio. “La sa tutta a memoria, sa dove andare, sa cosa fare, sa come è. Però diffida, e la diffidenza diventa paranoia fino a quando si accorge di non essere un uomo tutto d’un pezzo e di essere invece un uomo disgregato, di come la missione e la sua fede gli abbiano alienato tutto, il contorno privato, le emotività, gli affetti”.
“L’ideologia la compongono, la teorizzano, la formano gli individui, poi diventa una specie di totem, di dogma da seguire” continua a spiegare l’attore. “La provenienza resta però quella, anche quando l’individuo se ne dimentica. Ora prendo un altro tema, come quello dell’intelligenza artificiale. L’ha creata l’uomo, la sta creando l’uomo, ma saltano improvvisamente fuori discorsi sul doverla temere, sul doverne avere paura. Ma come l’individuo l’ha creata, poi può anche limitarla o distruggere. Penso ci sia mancanza di lucidità su questo, sulla consapevolezza che si dovrebbe essere padroni delle proprie invenzioni e delle proprie teorie“.
Riguardo la profonda ambiguità del suo Guido, Ragno crede che nessun essere umano sia davvero pacificato nell’animo. “La dimensione di crisi è una cosa costante” riflette. “La favola che finisce con tutti felici e contenti me la devono ancora spiegare. Perché qualunque tentativo dell’umano ha a che fare con la sostanza escrementizia. Sembra un elemento volgare, ma è un elemento invece anche molto produttivo per il futuro, perché dal crollo di ciò che è stato prima è nato qualcos’altro. Evidentemente si ha sempre bisogno di andare verso l’inferno, anche quando consapevolmente uno si dice che non ci sta andando”. Quindi prosegue: “Penso si sia già in malafede nel momento in cui si è al mondo. E in merito a questo film lo intendo in relazione al rapporto col potere che i due personaggi hanno, fatalmente destinato a essere in malafede”.
Europa centrale veicola tutto ciò stipando i personaggi negli spazi angusti e soffocanti, con la macchina da presa schiacciata sui volti a richiamare l’estetica e il linguaggio del cinema da camera. C’è stato un po’ di teatro in fase di preparazione del film? “Io amo un certo tipo di teatro, penso a Eimuntas Nekrošius, penso a Luca Ronconi, penso ovviamente a Carmelo Bene. Però ci sono tantissime nuove registe e registi, nuovi attori e attrici, e abitando a Roma per me il Teatro Vascello è un punto di riferimento che mi fa scoprire linguaggi sempre nuovi. Tutti gli attori del film, da Pierobon a Ragno, da Catherine Bertoni de Laet a Matilde Vigna, hanno una formazione teatrale. Non solo la macchina da presa li ama, ma possiedono anche una tecnica di un certo tipo, necessaria a veicolare quell’emicrania di cui parlavamo, e anche un certo tipo di strumenti culturali nell’affrontare i personaggi stessi e la vita del set. Per chi viene dal teatro c’è proprio un approccio cameratesco, di famiglia, collegiale“.
Lo conferma Pierobon. “Di teatrale c’è che fare il film è stato molto simile a tanti allestimenti scenici. Ti chiudi in una stanza, cominci a provare e poi hai l’opportunità di condividere 24 ore su 24 con gli altri il progetto, avendolo fatto a Budapest. Poi nella modalità, bisogna vedere anche come sono scritte le sceneggiature, se i dialoghi hanno un evidente marchio letterario dove non c’è un tentativo di simulazione nel quotidiano, se c’è astrazione nelle battute, quasi in aforisma. Devi adattare un po’ la tua recitazione a questo. Quindi andare insieme ai suoni, andare insieme alle luci, andare insieme al treno, in una sorta di slittamento dal reale“.
Secondo Ragno però guai a tracciare una linea di demarcazione netta tra l’esperienza interpretativa teatrale e quella cinematografica. “Sono tutte secondo me cose abbastanza discutibili, perché non esiste una cosa senza l’altra. Il corpo c’è anche quando in un primo piano un attore fa soltanto il primo piano, perché il resto del corpo che è fuori campo continua a lavorare anche se uno non lo vede. Perché è tutto il corpo che sta dentro un primo piano”.
Europa centrale si inserisce in scia all’uscita nelle ultime settimane di Berlinguer – La grande ambizione (in cui è presente anche Pierobon, nei panni di Giulio Andreotti) e l’arrivo nel 2025 della serie M – Il figlio del secolo. Perché le nostre opere audiovisive avvertono in questo periodo così tanto la necessità di discutere figure e linee direttrici delle ideologie del passato? “Questi spettri saranno sempre tra di noi e penso che sia giusto così perché dobbiamo sempre rimanere sull’avamposto” dice Minucci. “La prima cosa che si deve insegnare e capire sul fascismo e sul nazismo è quel senso di normalità che volevano veicolare. Ce lo insegna la storia: i fascisti e i nazisti non erano dei mostri in natura, dalla nascita, erano persone normali diventate poi dei mostri attraverso un certo conformismo. C’è un libro splendido di Christopher Browning che ne parla, Uomini comuni. Dobbiamo sempre stare attenti al fascista che è in noi, che è dietro l’angolo. Un altro esempio può essere quello della Romania di Ceaușescu, nella quale fino al 1989 esisteva la polizia mestruale, dove le donne erano obbligate ogni tre mesi ad andare negli ospedali e far controllare il loro stato di fertilità. Se non rimanevano incinte, perché c’era un progetto di natalità, venivano multate e non potevano lavorare. Quindi attenzione, studiamo bene le ideologie. Occorre conoscerle, capire a fondo come funzionano e come si applicano per poterle disinnescare”.