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Everything Everywhere All At Once
Martina Barone

Everything Everywhere All At Once: recensione del film

Tags: Daniles, Everything Everywhere All At Once, Michelle Yeoh
Everything Everywhere All At Once
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Martina Barone

Everything Everywhere All At Once: recensione del film

Tags: Daniles, Everything Everywhere All At Once, Michelle Yeoh

Qualsiasi genere all’interno di un solo film: un intero universo da cui uscire spettatori diversi dopo la visione di Everything Everywhere All At Once

Everything Everywhere All At Once è tutto. È qualsiasi genere vi venga in mente. È tutto ciò che vi piace e ciò che non vi piace del cinema. È la cultura spettacolare del blockbuster americano, è lo spirito action delle arti marziali nei film asiatici, è il feel-good movie sulla gentilezza da ritrovare e l’opera esistenziale che ci collega tutti in questo grande, immenso, vasto mondo. Ed è tutto contenuto nella stessa pellicola. Era esattamente questo l’intento dei Daniels, coppia di registi diventati al secondo film un marchio di fabbrica, aiutati dall’essere omonimi e potendo così presentarsi quasi come un brand, ma soprattutto perché dietro al nome gli autori riservano una follia fuori dal comune. 

Quella che avevano dimostrato col loro esordio Swiss Army Man — Un amico multiuso, dove il cadavere del Manny di Daniel Radcliffe veniva trasportato per ogni dove dal suo compare Hank interpretato da Paul Dano, instaurando un legame tra personaggi improbabili e risoluzioni di svolte e avventure a suon di puzzette. Per il secondo lavoro gli autori hanno dovuto aspettare sei anni e una lunga pandemia, ma in un multiverso come quello cinematografico attuale, dove tutti i franchise finiscono quasi per convergere in uno solo risultando rendendoli gravosamente uguali, in quello di Everything Everywhere All At Once i Daniels hanno trovato la propria dimensione. Le proprie dimensioni.

Dal cinema autoriale ai film d’animazione: le ispirazioni di Everything Everywhere All At Once

Everything Everywhere All At Once
Credits: I Wonder Pictures

Nel più insensato calderone filmico che la sala era da anni che non si ritrovava a fronteggiare, in cui agire per azioni assurde è la chiave per poter saltare da un pianeta ad un altro, nella pellicola con protagonisti Michelle Yeoh, Jonathan Ke Quan e Jamie Lee Curtis il piccolo budget riservato al film ne ha fatto il più costoso prodotto audiovisivo a livello intellettivo ed emotivo del 2022. Quello che un qualsiasi spettatore avrebbe mai potuto sognare e chiedere, vedendo esauditi tutti i propri più immaginifici desideri. Nella gigantesca premessa di voler inserire ogni genere che sia mai stato ideato per mescolarli e inserirli poi nel più spaventoso e simbolico dei bagel, nel suo rincorrere freneticamente i personaggi Everything Everywhere All At Once conquista un valore a cui esigue altre operazioni possono appellarsi. Che solamente a poche pellicole viene concesso con una tale ampiezza, tanto da sopraffare poiché incontenibile nella galassia espansa dei Daniels.

È la libertà il più accentuato estro artistico di un’opera che raramente si era manifestata con tanto vigore, cavalcandola a briglia sciolta; che gli autori sorprendentemente sono riusciti a contenere pur restituendo in maniera perfetta la sensazione di spazio e tempo, infinitezza e eternità con cui avviluppare il pubblico. Il permettere alla propria fantasia di non rinchiudersi in schemi già consolidati, nonostante la presa e messa a punto di stilemi e codici narrativi che vedono alternati i momenti autoriali (In the Moon for Love) con il mondo dell’animazione (Ratatouille), giungendo fino al collegamento metafisico con la matrice di Matrix, toccando lo spasso delle pellicole anni ’90.

Il viaggio dentro all’universo (e al cinema)

Everything Everywhere All At Once
Credits: I Wonder Pictures

È un vero e proprio cammino quello che Everything Everywhere All At Once tratteggia, da cui lo spettatore non può certo uscirne rispetto a come ne era entrato. È un viaggio in cui dalla dimensione di realtà iniziale, pur immediatamente ritmata dalla frenesia del montaggio e dalla precisione dei gesti e delle battute dei personaggi, ci si catapulta in una navicella che fa tappa nei più disparati e distanti dei cosmi per farli poi collassare tutti al proprio interno. Alla conclusione del film non si è le stesse persone di quando è cominciato. Ma soprattutto non si è affatto gli stessi spettatori, trasportati in quella bolla atavica della vita e del cinema in cui aveva saputo condurre 2001: Odissea nello spazio (titolo immancabilmente citato) e che l’opera dei Daniles riflette con i film d’intrattenimento. La (ri)scoperta di un’attrazione che è intesa come giostra, flusso dinamico e senza alcun punto fermo, ed anche in quanto forza motrice che spinge il pubblico nei continui cambi di aspetto, tono e formato della pellicola.

Il respiro di Everything Everywhere All At Once è quello di un’insensatezza che se appartiene all’esistenza, con cui tutti noi abbiamo ogni giorno a che fare, allora può esserlo anche di un cinema che riesce a imbrogliarla sapendola sia contenere sia lasciandola esprimere. È comprendere che universalmente vogliamo essere tutti amati, capiti, divertiti, ascoltati, affiancati, rallegrati, scossi, intrattenuti. Che la nostra forma sia quella di un sasso, di una pignatta, di esseri con le dita flosce e lunghe o persone che hanno intrapreso carriere completamente differenti dalle proprie. È quello che il film offre. Donando qualsiasi cosa, proveniente da qualsiasi parte, tutto in una volta. 

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