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Alessio Zuccari
Fly Me to the Moon: recensione del film con Scarlett Johansson e Channing Tatum
Tags: channing tatum, Fly Me to the Moon, Greg Berlanti, scarlett johansson
Fly Me to the Moon è un film sugli Stati Uniti che vedono gli Stati Uniti. Quelli dell’imperituro e inossidabile sogno a stelle e strisce, quelli delle chimere arroccate sugli scranni nella penombra. Gli Stati Uniti del bianco e del nero. Nel mezzo a fare la differenza? Una spruzzatina d’amore, ovviamente. Allora cosa di meglio se non una good american comedy un po’ strampalata e un po’ troppo extralarge per parlarci di come e quando gli USA si vedono buoni e di come e quando invece fiutano il bruciacchiato. In regia c’è Greg Berlanti, in ritorno dietro la macchina da presa dopo il Love, Simon del 2018, in sceneggiatura Rose Gilroy e al centro dell’inquadratura il dinamico duo di Scarlett Johansson e Channing Tatum.
Johansson è Kelly Jones, rampante e beffarda genietta del marketing newyorkese. Tatum è Cole Davis, uno dei direttori dei progetti Apollo presso la NASA. Il decennio infatti è quello del 1960 e la corsa allo spazio è calda, caldissima, con gli Stati Uniti sfidati da un’Unione Sovietica che è riuscita per prima a inviare un uomo nello spazio. Sui progetti Apollo pende invece una cattiva stella dopo che il programma Apollo 1, nel 1967, ha visto morire tre astronauti in un incidente in fase di lancio. È il trauma che tormenta il rigido e integerrimo Davis, ed è l’onta che deve in qualche modo smacchiare la nuova assunta Jones, chiamata a rilanciare l’immagine della NASA agli occhi dell’opinione pubblica. E cosa fa Jones? Si inventa la NASA come brand, fa finire il futuro equipaggio dell’Apollo 11 – il leggendario trio Armstrong, Aldrin, Collins – su tutte le copertine, stringe accordi con aziende di orologi.
Quella di Fly Me to the Moon è insomma l’America delle seconde possibilità, della nuova chance, dell’intramontabile fiducia nei singoli che possono reinventarsi e fare la differenza. È anche l’America delle cose buone e delle cose cattive che convivono sotto lo stesso tetto. L’intero sforzo del film, d’altronde, è teso a discutere la moneta e il suo rovescio. Ci prova con un umorismo spigliato ma anche con delle scelte talvolta un po’ arrembanti per tono e coerenza narrativa, carambolate nel mezzo di un minutaggio eccessivo (più di due ore) dove qualcosa è sfuggito alla sforbiciata del montaggio.
La prima parte di Fly Me to the Moon è tutta orientata a sottolineare come ogni cosa, negli USA, quindi in occidente, quindi nel regime di mercato libero, sia soggetto alla possibilità di mercificazione e brandizzazione, impacchettabile, confezionabile e vendibile come oggetto di culto. Basta avere il giusto pubblicitario. Ed è senz’altro curioso notare come Fly Me to the Moon approcci la questione con la spavalderia irresistibile e zuccherosa della sua inafferrabile protagonista, che non tiene davvero a niente se non ad ottenere il titolo in copertina.
Il film, poi, cala ovviamente addosso a Jones il contrario di tutte le sue azioni. Che è, a partire letteralmente dallo scoccare della seconda metà, il discutere come dietro le quinte del mondo della pubblicità si annidi la sua cugina malvagia, la propaganda. Qui la sceneggiatura di Gilroy tende un filo comune ma settorializza i negativi, mette le cose che sono ok da una parte e le cose che non sono ok dall’altra. Appesa tra i due c’è questa personaggia che deve scendere a patti con il doversi riscoprire demiurga della menzogna a fin di bene e della menzogna che invece è menzogna e basta. Perché a un certo punto le tocca alzare la cornetta e dell’altra parte trova Richard Nixon, che nella persona di Moe Berkus (Woody Harrelson) ordina di iniziare i preparativi per inscenare un finto sbarco sulla Luna (con inevitabile battute su Kubrick), nel caso quello reale vada storto – il progetto Artemis; curiosamente, lo stesso nome dell’attuale programma per riportare l’essere umano sul satellite.
Insomma, attraverso la strampalata scoperta di un sentimento intimo, quello con Davis – dove la pellicola stuzzica in punta di fioretto i protagonisti e il loro relazionarsi, ma pure qui non senza lungaggini –, Kelly e il film stabiliscono che in America vendere è cool, smart, fresh ma solo se lo si fa con i brand autentici, e che non c’è spazio per i tarocchi. E stabiliscono anche, molto più lateralmente, che l’era della post-verità, del titolo invece che del contenuto, è nata in seno a quella concezione gagliarda dell’economia e della società lì. Che ci ha dato la Luna, sì, con annesso il suo very very very dark side.