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Alessio Zuccari
Giurato numero 2: recensione del film di Clint Eastwood
Tags: Clint eastwood, Giurato numero 2, J.K. Simmons, Nicholas Hoult, toni collette
Chi se ne frega del chiedersi se questo sia l’ultimo o meno. Clint Eastwood, classe 1930, ci ha abituato a continui colpi di scena. Non c’è allora riposo dal cinema, se non quello davanti la macchina da presa, per l’eterno cowboy che si era pensato ironicamente senile nel Cry Macho del 2021. Forse quello sì, era il congedo con sipario in dissolvenza per l’Eastwood attore, ma tre anni dopo eccolo ancora nelle sale come regista con Giurato numero 2, all’ottava pellicola in dieci anni. In sceneggiatura, originale, Jonathan Abrams, alla sbarra Nicholas Hoult. Ma quale sbarra? Quella solo del giurato o anche quella dell’imputato?
Non si fa spoiler, il dilemma alla base del film è da sinossi. Un giornalista d’attualità ed ex alcolista, l’uomo probo Justin Kemp (Hoult), è chiamato per servire come giurato in un processo per femminicidio – questo è, anche se il film la parola non la interpella mai direttamente. Solo che più il processo va avanti, più Justin si rende conto di essere forse coinvolto in prima persona con la morte di questa donna, Kendall (Francesca Eastwood), trovata morta sotto un cavalcavia dopo una notte di tempesta.
Fino a quando Justin si sente mescolarsi con la figura dell’indiziato (Gabriel Basso), che è inchiodato da testimonianze oculari e da un trascorso di relazione tossica con la vittima. Cosa fare? Sollevare apertamente il timore di essere stato lui a investire Kendall, compromettendosi forse fatalmente proprio ora che è in arrivo un figlio con la moglie Allison (Zoey Deutch)? Oppure continuare a battersi per un’assoluzione, con un intestardirsi apparentemente senza senso agli occhi degli altri undici membri della giuria?
Giurato numero 2, con coerenza al proprio assunto, non insegue mai la tentazione di andare a decretare quale sia l’azione più corretta da compiere. Nonostante in alcuni frangenti arrivi a sbilanciarsi sullo sciogliere il dubbio di Justin (e quindi nostro) sul come siano davvero andate le cose, il film si sforza di commentare con elogio di incrollabile fiducia la funzione del sistema giudiziario statunitense. Che è riconosciuto in un rapporto di imperfetto equilibrio nei confronti della verità oggettiva, eppure salvato dalla radice, garantista, del suo meccanismo fondato sul ragionevole dubbio.
Un sistema quindi oltre le mutabilità individuali: oltre Justin e la sua lacerazione; oltre la candidata procuratrice Faith Killebrew (Toni Collette), in campagna elettorale per la sua elezione e quindi giudicata miope, distratta da interessi consci o inconsci, dal film; oltre l’avvocato di difesa d’ufficio Eric Resnick (Chris Messina), che fa quel che può con poche risorse a disposizione e un verdetto d’opinione popolare già emesso; oltre i 12 Angry Men (pellicola che rimane cardine nel genere processuale), e women, di differenti estrazioni e provenienze interpellati a emettere un giudizio (tra questi J.K. Simmons).
Ma non oltre le persone, che restano il terminale di riferimento per un’adesione empatica e di riconoscimento umano. Ed in proposito è interessante notare che un altro grande regista statunitense, William Friedkin, si è congedato di recente dal teatro del cinema e della vita proprio con un articolato courtoom drama, The Caine Mutiny Court Martial, film TV passato postumo in anteprima al Festival di Venezia 2023. Con il quale, curiosamente, Giurato numero 2 condivide la presenza di Kiefer Sutherland, qui avvocato a cui Justin chiede consiglio e capogruppo degli Alcolisti Anonimi che l’uomo frequenta.
Un film che Eastwood ragiona interamente sull’atto del vedere: su chi vede male, su chi vede poco, su chi non vuol vedere, su chi tiene gli occhi bassi. Una metafora manifesta a partire da una simbologia tutto tranne che sottile, che mantiene la lacerazione morale ed etica del suo protagonista ad un’altezza di ampia leggibilità, assegnata in gran parte più alla profondità interpretativa di un ottimo Hoult (ma davvero bravi tutti gli interpreti) che alla profondità di scrittura. Il conflitto del personaggio è immediatamente quello e quello resta, tormento che naviga nell’ambivalenza di un perenne autosabotaggio e riparazione, tra il far la cosa giusta in senso assoluto e il far la cosa giusta per sé e per chi sta accanto.
Molto belli i momenti in famiglia, i lampi di tenerezza che Justin condivide con Allison e in cui Giurato numero 2 inocula una sottile linea d’ironia, mentre la regia classica, chiara, rigorosa in tribunale si stringe a togliere respiro a Justin, inchiodato in uno sguardo sempre più vitreo. Si comprendono allora anche certe bonarie ingenuità che osservano il capolino del contemporaneo (i true crime, il giovane giurato cannarolo, un bislacco utilizzo di Google) e alcune forzature logiche (gli esami dell’autopsia), figlie di un’ostinazione che asservisce la logica all’inossidabilità del messaggio. Un film a fuoco, centrato sulla tesi, con un finale che in due inquadrature riassume l’irrisolvibile quesito di fondo.
Giurato numero 2 è al cinema dal 14 novembre con Warner Bros.