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Alessio Zuccari
Here: recensione del film di Robert Zemeckis
Tags: Here, paul bettany, robert zemeckis, Robin Wright, tom hanks
Tom Hanks, Robin Wright e Robert Zemeckis di nuovo insieme. Trent’anni dopo Forrest Gump. E dove se non in un film come Here, che è una macchina mescolatrice, anzi, di giustapposizione del tempo? Here, che significa qui, che nel nuovo film diretto dal regista statunitense e scritto assieme a Eric Roth ha le sembianze di un lotto di terra su cui scorrono storie e volti separati in un arco di tempo di milioni di anni, ma accomunati dallo stare, appunto, tutti qui.
Zemeckis, che adatta la graphic novel omonima di Richard McGuire del 2014 (su espansione di un fumetto di sei pagine del 1989), mette infatti in scena un atto registico radicale. Sceglie un punto d’osservazione ben preciso e lì arpiona la macchina da presa. Che non mostrerà altro rispetto a ciò che ha di fronte (ad eccezione di due momenti) e non si sposterà mai (ad eccezione di un solo frangente) da dove è collocata.
Here osserva allora i dinosauri spazzati via da un cataclisma. Ma anche un padre e una madre afroamericani che spiegano al proprio figlio, durante il periodo della pandemia da Covid-19 e del Black Lives Matter, come comportarsi in caso venisse fermato in automobile dalla polizia. Poi guarda il popolo indigeno dei Lenni-Lenape, quindi il sorgere nelle vicinanze della tenuta coloniale di William Franklin. Infine la costruzione della casa che farà da fulcro emotivo e metaforico dell’intero film, da cui lo sguardo di Zemeckis, e il nostro, guarda e in cui sarà confinato.
I personaggi sono molti, le vicende altrettante. Ma a fare da raccordo c’è la storia della famiglia Young, che Here segue prima con il trasferimento del padre (Paul Bettany) e della madre (Kelly Reilly), poi con l’arrivo dei figli e il crescere di questi figli, tra cui Richard (Hanks). Richard si innamora di Margaret (Wright), la presenta ai genitori, arrivano i figli dei figli, l’invecchiamento, l’allontanamento. E all’improvviso ci si accorge che “il tempo è volato”.
A guardare Here si capisce come Zemeckis abbia in testa la volontà di fare due cose. La prima è inseguire, con gli espedienti tecnologici e digitali dal regista sempre corteggiati lungo la propria carriera, un’opera-vita. Guarda alla nascita, alla crescita, alla morte. Li sceglie a punti di contatto in comune tra le esistenze in cui si affaccia il film e che il film racconta non ignorando la complessità di percezione del reale che stiamo attraversando nel nostro presente. Una percezione che è quantica: la narrazione non può essere più lineare, nell’epoca delle teorie delle stringhe e dei multiversi.
Così Here non racconta un prima e un dopo ponendoli su di una retta ordinata cronologicamente, ma salta di continuo tra l’estremo prima e l’estremo dopo. Riquadri compaiono nel mezzo della singola inquadratura che compone il film (ma forse sarebbe più corretto chiamarlo il singolo punto macchina), che fanno traslare in un altro momento, ma sempre nello stesso luogo-memoria. Un montaggio spesso in dissolvenza, che è tutto interno grazie alla tecnica, allo strumento del digitale e della computer grafica, utilizzata massicciamente anche nel lavoro di ringiovanimento fisico – manifesto e non impeccabile – sui membri della famiglia Young (che portano un nome che non è certo casuale).
E poi Zemeckis vuole fare la lirica di una nazione. L’oggi è stato fondato dallo ieri. Il presente è l’accumulo del passato, così come il futuro è un presente che si sussegue. Così Here raggruma dal macro-storico al micro-intimista. Riflette su chi c’era prima a occupare quel suolo; chi di quel suolo ne è stato privato; chi e come su quel suolo ha versato sangue; chi su quel suolo ha infine edificato una casa, l’ha abitata, le ha conferito il significato di cosa voglia dire essere degli americani. Che passa dalla famiglia, dalla patria (ci si arruola), dalla fede (si prega prima dei pasti), dal capitalismo (si fa impresa) e dal consumismo (la mobilia cambia, la TV, il sogno dell’acquisto di un’altra casa).
Una carica di valori conservativi (e forse anche conservatori) che Zemeckis discute come radice degli Stati Uniti, a cui guarda con grande tenerezza e ironia, in cui forse si rivede. Cristallizza lo stare, ancora, qui. Nel campo, dove avere bene a fuoco chi siamo, cosa siamo. E c’è appunto anche un’inevitabile amarezza nell’osservarsi così. C’è sempre una radice di rimpianto nelle scelte che si è fatto in vita – il personaggio di Margaret, dolente, rimpiange molto. Perché una scelta comporta sempre un’esclusione. E allora la scelta del guardare qui, del raccogliersi, del contarsi, conforta; ma apre anche al what if, al ‘e se…?’. Tutto ciò che è nel fuori-campo è incertezza, dubbio. Forse però è anche avventura non vissuta.
Here incastona questo sentimento agrodolce come battito trasversale del film, anche se la frenesia di un montaggio (Jesse Goldsmith) mai domo non permette una pulsazione duratura, un attaccamento a questi personaggi. Quasi come se – volontariamente o involontariamente – si suggerisse la malinconia di una carezza ma non una persistenza dell’emozione. Perché ogni cosa è destinata a essere oggi, prima di fluire via domani. Ma i luoghi, e l’atto del guardare, per Zemeckis dialogano con la memoria anche oltre il muro di una malattia. Riportando ogni cosa, ancora una volta, dentro. Qui.
Here è al cinema dal 9 gennaio con Eagle Pictures.