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Alessio Zuccari
Venezia81 | Iddu: recensione del film di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza
Tags: Antonio Piazza, elio germano, Fabio Grassadonia, Iddu, toni servillo, Venezia81
«La realtà è un punto di partenza» recita una didascalia in apertura di Iddu, il nuovo film di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza. I due sceneggiatori e registi, che anche in questa occasione sceneggiano e dirigono, arrivano alla loro terza collaborazione in lungometraggio dopo il premiato Sicilian Ghost Story, presentato a Cannes nel 2017 e vincitore di un David di Donatello alla miglior sceneggiatura. E quella Sicilia già presente nel titolo della loro opera precedente torna ancora in Iddu, presentato in Concorso al Festival di Venezia 2024, nella fattispecie di un racconto quasi surreale con al centro l’indagine attorno alla figura di Matteo Messina Denaro.
Ma appunto, come si dice in apertura, dalla realtà si trae solo uno spunto. Messina Denaro non è allora mai appellato per intero, ma è solo Matteo Matteo Matteo nella bocca degli interlocutori che pronunciano ripetutamente il suo nome come se fosse il figlio avvelenato di un paese – di un Paese – intero. Iddu, in fondo, è una storia che vuole provare a parlare di padri e di padrini.
Matteo (Elio Germano), U’ Pupu, è succube del fantasma del genitore, che torna a visitarlo in sogno nella casa della signora (Barbora Bobulova) dove si nasconde. Ed è ripetutamente cercato, evocato, avvicinato dal viscido Catello (Toni Servillo), suo padrino, affarista e imprenditore corrotto appena uscito di prigione che ne cerca il favore per salvarsi la pellaccia sotto la pressione fattagli dai Servizi segreti, che vogliono coinvolgerlo da collaboratore.
Grassadonia e Piazza scelgono dunque il tono di un ridicolo aperto e dichiarato (si dirà che il ridicolo «uccide più delle pallottole»), di un’ironia aspra volta a dissacrare questo pantano di malavita con la risata e lo sberleffo. Da quella realtà scansata nei riferimenti e nella cronaca si coglie allora, ad esempio, l’uso e la centralità del pizzino, che in un film che sfiora contorni sonori, visivi e di tono quasi da cinema pop si erge a riferimento popolare per eccellenza, significante immediato in un racconto quasi folkloristico e tutto italiano fatto di crimine, latitanze e morti ammazzati.
Nel mezzo sgomitano l’affanno dell’unto Catello e l’ambiguità del colonnello dei carabinieri (Fausto Russo Alesi), con un femminile relegato ai margini dell’istituzione (l’ispettrice di Daniela Marra) e pure dell’espressione mafiosa, dove si accontenta di fare da braccio destro in borghese, nel privato del salotto della casa del boss, come tocca alla sorella del Pupo, Stefania (Antonia Truppo).
Iddu, però, ha troppo di niente e poco di tutto. Ci si chiede a un certo punto: dov’è il racconto dell’efferatezza? Dov’è la bestia? Perché se è vero che la realtà non è una destinazione (lo cita ancora quella didascalia d’apertura), è pur sempre sul calco di uno dei criminali più tristemente titolati della nostra nazione che il film si plasma. E se ne avverte la mancanza perché è manchevole anche l’incisività dell’ironia, dell’attacco in caricatura con il quale si tratteggia un umano meschino, sdoppiato nelle due figure speculari del piccolo servo e del maligno incapace d’empatia.
Ecco, a Iddu si strozza in gola il tentativo di giocare al rovescio che vuole il male raccontabile nella sua allucinazione più gretta e ombelicale. Si strozza in gola perché si ingolfa anche di un eccessivo diramarsi a cartografare tutte queste istanze che si muovono attorno a una caccia all’uomo che non è mai davvero indagine, non è mai davvero introspezione, non è mai davvero esorcismo in chiave d’assurdo. Addirittura si perde, soprattutto verso il finale, a inseguire la morale spiegata, le cose dette in chiaro e tondo, in piena stonatura con la risma di umori tenuta sino a quel momento. Dove voleva andare questo film?
Iddu è al cinema dal 10 ottobre con 01 Distribution.