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Alessio Zuccari
Il gusto delle cose: recensione del film con Benoît Magimel e Juliette Binoche
Tags: Benoît Magimel, Il gusto delle cose, juliette binoche, Trần Anh Hùng
Al cinema deputiamo spesso il compito di doverci dire qualcosa. Di farci pensare, di porci un tema. Lo facciamo, ed è giusto se non addirittura sacrosanto farlo. Ma c’è un cinema capace di scansare le tesi dal tavolo, di ridursi tutto in radice. Di avvolgersi attorno a una singola idea, a un singolo sentimento, come lo è l’amore. E basta. Come se fosse poco. È un cinema complesso, perché sull’amore c’è ben poco da dire. Occorre farlo sentire. E tradire il trasferimento dell’emozione allo spettatore è questione di un attimo. Il gusto delle cose ce lo mette però subito in chiaro e in tondo dalla prima inquadratura: questo è un film da percepire. Un film di mani che fanno, afferrano, affettano, condiscono, mesciano. Di mani in dialogo. Poco tra di loro; molto, quasi sempre, attraverso la preparazione dei pasti, e poi tramite il loro venir consumati. Da portare dentro, da accogliere.
Sì, si parla di amore. Ma non si parla, si cucina. Trần Anh Hùng, che il film premiato al Festival di Cannes 2023 con la Miglior regia lo scrive e dirige, sceglie l’arte culinaria come conduttore sensoriale tra i suoi due amanti. Da una parte c’è il rinomato gastronomo Dodin Bouffant, ispirato al personaggio del romanzo del 1924 La Vie et la passion de Dodin-Bouffant, gourmet di Marcel Rouff e qui interpretato da Benoît Magimel. Dall’altra sta invece la sua cuoca e cara Eugénie, Juliette Binoche. Condividono la stessa villa – ma non il letto – immersa nel verde sul finire dell’Ottocento, condividono il sentimento l’uno nei confronti dell’altra, condividono la passione per l’atto della creazione che poi presentano a un andirivieni di entusiasti e benevoli amici. Et c’est tout.
La grandezza de Il gusto nelle cose, perché questo è un grande film, sta nell’avere i toni e i colori pieni di un quadro ricco della luce della gioia e delle tinte chiaroscurali delle malinconie (la fotografia è di Jonathan Ricquebourg). È un quadro che straborda dalla cornice con i suoi odori e i suoi profumi, che si appropria di quello spazio al centro della trattazione audiovisiva degli ultimi anni, qual è la cucina, e lavora però in controtendenza rispetto all’uso che ne è stato fatto anche di recente.
Cucina, con i suoi spazi, i suoi rituali, le sue regole che qui non sono campo di battaglia della trattazione della frenesia o dello stress della contemporaneità – The Bear –, ma che è invece riscoperta all’essenziale di un dialogo armonioso di amicizia, di amore e un pizzico di delicato erotismo. E si capisce allora il perché di questo viaggio a ritroso nei secoli, nel 1885, in seno a un bucolico, e ad un agio borghese, che è del tutto utile a rallentare i tempi, a veicolare quella sensazione, anzi quella messa in predisposizione ad un umore, ad un percepibile sensoriale che taglia fuori quasi interamente l’intermediazione della comunicazione verbale. C’è chi prepara, chi aiuta (Galatéa Bellugi), chi impara (Bonnie Chagneau-Ravoire) e chi divora il pasto.
Ma la grandezza de Il gusto delle cose sta pure nel fatto che resti un film che si potrebbe anche solo ascoltare. Si potrebbero chiudere gli occhi e si avrebbe accesso allo stesso medesimo racconto, narrato in maniera complementare. Lo sfrigolio del soffritto, il tintinnio del pentolame, la croccantezza di una pietanza tagliata, i sospiri di apprezzamento, il suono della natura che entra dalle finestre e crea un senso di continuità tra il qui e il lì. Tra le cose come sono al loro stato iniziale e le cose come sono una volta ricreate, poeticizzate dall’atto culinario.
Una composizione che Trần Anh Hùng fa partire da una preparazione anche sgradevole, o, seguendo i parametri del film, forse sarebbe più corretto dire grezza, sgraziata, dal respingente delle viscere e delle interiora, in un’operazione poi di raffinamento, unione e sintesi. Il regista segue con manovre avvolgenti e prolungate la trasmutazione di questi ingredienti, con l’intento di renderci testimoni dell’avvenimento di una seducente magia, o forse di un atto esoterico. Per questo si insinua in punta di piedi con piani sequenza che oscillano tra il solleticare il palato e il riempire il cuore con la gentilezza sommessa, ma di grande intensità, del rapporto tra Eugénie e Dodin (Magimel e Binoche sono stati partner dal 1998 al 2003 e hanno una figlia insieme).
E del modo in cui il regista ci racconta di loro e della danza di cui ci hanno reso partecipi è il più alto testimone il movimento di macchina circolare nel finale del film, che riassume ciò che quella vita ha portato a questi personaggi, come la vita continui nonostante tutto e come si possa addirittura riportare alla vita stessa. Una rotazione che è l’essenza della capacità onnicomprensiva di uno strumento di memorie e sensazioni come solo il cinema lo è, capace di escludere dall’inquadratura e quindi proprio da quella vita lì, per poi, solo un istante dopo, reintrodurti all’esistenza. Il gusto delle cose e Trần Anh Hùng lo hanno capito, lo sanno fare e riempiono gli occhi, le orecchie, il petto e la testa di una beatitudine che è fiamma inestinguibile. Tra i migliori film degli ultimi anni.
Il gusto delle cose è al cinema con Lucky Red dal 9 maggio.