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Il Vampiro di Vanchiglia
Roberta Panetta

Il Vampiro di Vanchiglia: intervista a Donato Sergi

Tags: il vampiro di vanchiglia
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Il Vampiro di Vanchiglia: intervista a Donato Sergi

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Roberta Panetta
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Torino e i suoi misteri fanno da sfondo a Il Vampiro di Vanchiglia, il nuovo romanzo di Donato Sergi, che fonde realtà storica e suggestioni gotiche in un’indagine tra scienza, superstizione e crimine. Presentato pochi giorni fa al Circolo dei Lettori di Torino, in un’atmosfera quasi sospesa tra razionalità e magia, il libro affonda le radici in un vero caso di cronaca dell’Ottocento, trasformandolo in un’avventura avvincente e oscura. Abbiamo incontrato l’autore per scoprire i segreti dietro questa storia inquietante e il fascino della Torino noir.

R: Il romanzo si ispira a un reale fatto di cronaca del 1857, ma introduce anche elementi gotici e misteriosi. Come hai bilanciato la fedeltà storica con la necessità narrativa di creare suspense e suggestione?

D: Per me era fondamentale che la storia rimanesse radicata nella realtà storica, perché il fatto di cronaca che ha ispirato il romanzo ha un fascino inquietante di per sé. Tuttavia, non volevo che fosse solo una ricostruzione fedele: l’elemento gotico e misterioso serve a creare un’atmosfera sospesa tra razionale e irrazionale, tra scienza e superstizione, che rispecchia lo spirito del tempo.

Per bilanciare questi due aspetti, ho lavorato sulla narrazione in due livelli: da un lato, un’accurata ricostruzione della Torino ottocentesca, con i suoi quartieri, le tensioni sociali e il fermento intellettuale; dall’altro, l’inserimento di suggestioni oscure, ombre che si insinuano nei vicoli, racconti popolari che si mescolano con le indagini, lasciando al lettore il dubbio su cosa sia reale e cosa no. Il mistero non è mai esplicito, ma permea ogni pagina.

R: Giuseppe Turàt si oppone alla teoria del “nato criminale”, contrapponendo un approccio psicologico e analitico. In un’epoca in cui il determinismo biologico era dominante, perché era importante per te affrontare questo tema e come risuona con il dibattito contemporaneo sulla criminalità?

D: Il romanzo si colloca in un momento storico in cui le teorie della scuola positiva italiana stavano prendendo piede, e l’idea che la criminalità fosse scritta nel corpo e nel cranio di una persona era vista come una verità scientifica. Giuseppe Turàt, il protagonista, incarna un’altra visione, più moderna e lungimirante: quella della mente come origine del crimine, della società come catalizzatore, del contesto come elemento chiave.

Affrontare questo tema oggi è ancora attuale: il dibattito tra predisposizione biologica e influenza sociale sulla criminalità non si è mai spento. Anche se abbiamo abbandonato la frenologia, il rischio di ridurre il comportamento criminale a mere caratteristiche genetiche o stereotipi persiste.

Ma il male, quello vero, quello dell’uomo, non degli spettri, è qualcosa di più sottile. È nelle scelte, nelle circostanze, in una psiche lacerata da indicibili esperienze. Ed è questo che il romanzo esplora: non il criminale, ma l’abisso che lo genera.

R: Torino è protagonista del romanzo tanto quanto i personaggi. Dopo anni di ricerche sulla città, qual è stato l’aspetto più affascinante o inaspettato che hai scoperto e che hai voluto trasmettere nel libro?

D: Torino è una città fatta di strati sovrapposti: da un lato, la sua struttura razionale, i viali ordinati, l’architettura austera; dall’altro, i suoi vicoli nascosti, le leggende, le storie che si annidano nei portici.
Uno degli aspetti più affascinanti è stato il rapporto della città con il paranormale e il razionalismo scientifico. Torino è sempre stata un crocevia tra questi due mondi: culla dell’illuminismo, ma anche città con una lunga tradizione esoterica. Questa tensione tra luce e ombra, tra scienza e superstizione, è la stessa che attraversa il romanzo e che definisce i suoi personaggi. Non è solo lo sfondo della storia: è il cuore pulsante del mistero.

R: Nel romanzo il movimento femminista emergente si intreccia con la narrazione. In che modo la lotta per i diritti delle donne influenza le indagini e i personaggi, e quali parallelismi vedi con le battaglie ancora attuali?

D: Nell’Italia di metà Ottocento le donne iniziavano a reclamare spazio, ma erano ancora invisibili nelle istituzioni, nella scienza, nella giustizia.

I parallelismi con l’oggi sono evidenti: quanto è cambiato realmente? Ancora oggi ci si scontra con stereotipi di genere, con una rappresentazione della donna spesso filtrata da visioni maschili. Il romanzo non dà risposte, ma mostra come certe dinamiche siano ricorsive, e come la lotta per l’uguaglianza sia una battaglia lunga e complessa, allora come oggi.

R: Hai scritto saggi e racconti con pseudonimi, esplorando vari generi. Cosa ha significato per te scrivere Il vampiro di Vanchiglia e cosa ti ha lasciato, rispetto alle tue opere precedenti?

Scrivere Il vampiro di Vanchiglia è stato un viaggio diverso da qualsiasi altro.

I saggi mi hanno insegnato il rigore della ricerca, la precisione del dettaglio. I racconti, invece, la rapidità del colpo, la bellezza dell’ellissi.

Ma questo romanzo… questo romanzo ha richiesto un respiro diverso. Ho dovuto mangiare la polvere delle strade di Torino, sentire il peso della storia e camminare accanto ai miei personaggi fino a che non fossero loro a guidarmi.

È stato come aprire una porta su un tempo che non si è mai davvero spento.

A differenza delle mie opere precedenti, qui ho dovuto accettare che alcune risposte non esistono, o non servono. Che il mistero non è solo ciò che si nasconde, ma anche ciò che resta a galla, senza soluzione definitiva.

Mi ha lasciato con più domande di quante ne avessi all’inizio. E questa, forse, è la cosa più vicina alla verità che la scrittura possa offrire.

R: Un’ultima domanda da cinefila: se Il Vampiro di Vanchiglia diventasse un film, a quale regista affideresti la sua trasposizione cinematografica e perché?

D: Se Il Vampiro di Vanchiglia diventasse un film, lo affiderei senza esitazione a Tim Burton.

Burton è un regista che ha sempre saputo giocare con l’equilibrio tra il grottesco e il sublime, tra l’eleganza e il perturbante. La sua visione estetica, fatta di luci soffuse, prospettive distorte e atmosfere gotiche, sarebbe perfetta per restituire la Torino di fine Ottocento che ho immaginato: una città che non è solo uno sfondo, ma un’entità viva, quasi un personaggio.

Immagino la nebbia che striscia lungo i vicoli, le ombre che si allungano in un chiaroscuro espressionista, le inquadrature che rendono la città un labirinto di segreti. Immagino una Torino burtoniana, con la sua capacità di essere reale e irreale allo stesso tempo.

Sì, se Il Vampiro di Vanchiglia dovesse diventare un film, vorrei che fosse un’esperienza visiva e sensoriale unica. E Tim Burton è l’unico capace di trasformare il mistero di Torino in un incubo elegante e indimenticabile.”

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