Top News, Interviste
0
Alessio Zuccari
In ultimo, Mario Balsamo: "Lo sguardo giusto si trova solo con empatia e ascolto"
Tags: 42TFF, In ultimo, Mario Balsamo
Toccante e umanissimo, In ultimo è il documentario che segna il ritorno di Mario Balsamo nel Concorso Documentari del Torino Film Festival 2024. Per il regista è la terza volta, dopo il successo dell’autobiografico Noi non siamo come James Bond presentato nel capoluogo piementose nel 2012, edizione in cui si è aggiudicato il Premio della Giuria, e nel 2015 con Mia madre fa l’attrice.
Questa volta Balsamo segue il medico palliativista Claudio Ritossa, una figura che conduce all’interno dell’Hospice Anemos di Torino, una struttura nella quale sono accolte persone anziane che si avvicinano alla fase conclusiva della loro vita. Con un tocco e uno sguardo sempre attenti a rispettare la distanza tra chi osserva e chi è osservato, il regista documenta la quotidianità della cura e del supporto dedicati ad alleviare le pene dei pazienti. Lo abbiamo incontrato e ci ha raccontato qual è stata la sua esperienza e qual è per lui il compito a cui dovrebbe assolvere un film come questo.
Partiamo dall’inizio. Quando e come avviene l’incontro con il Virgilio che ci guida in questa storia, Claudio Ritossa?
È avvenuto vari anni fa, prima che nascessero le riprese del documentario. Ed è stato un incontro fondamentale nella mia vita. Perché con Claudio e con le persone che lavorano nell’hospice, ma anche con le persone che stanno intorno a lui, ho vissuto uno spicchio di esistenza. Ritengo sia stato per me un percorso di spiritualità, e quindi non lo posso scindere dalla mia vita. Intendiamoci, tutti i documentari per come li faccio io, per come li fanno anche tanti colleghi, sono spicchi della nostra vita che ci mettono sempre in discussione. Però in questo caso lo è stato forse un po’ di più, perché sì, Claudio è stato un Virgilio che oltre a condurre i degenti, a condurre me dentro l’ambiente dei degenti, ha condotto me persino dentro me stesso.
Tutti i documentari sono un esercizio di etica dello sguardo, però In ultimo lo è un po’ di più. Dove si trova la giusta distanza per non superare un certo limite, anche morale?
Credo che sia la cosa più difficile, perché la giusta distanza significa non cadere né nel pietismo e nel voyeurismo né, dall’altra parte, nella freddezza. Quindi occorre trovare quel punto giusto, che è la cosa più complessa, da cui deriva poi, sul fronte tecnico, anche la collocazione del punto macchina. E secondo me lo si apprende soltanto guardando con grande empatia, con grande ascolto, con grande libertà, la persona che hai davanti. Da quel momento in poi, se sei entrato in sintonia, le cose vanno come dovrebbero andare. Serve quindi che una persona si racconti per quello che è. E quindi anche tu, con la tua presenza e con il dialogo silenzioso che si è venuto a creare, la spingi a rivelarsi in maniera più autentica.
Tu sei anche un docente. E rimanendo su ciò che abbiamo appena detto, qual è l’insegnamento più importante che pensi si possa trasmettere riguardo l’etica dello sguardo?
La funzione del docente di cinema e di cinema del reale è proprio questa. In fondo non abbiamo tante regole, né nel cinema di finzione, né in quello documentaristico. Facciamo vedere tanti film, li analizziamo. Però probabilmente la cosa più importante è quella di comunicare la propria esperienza in situazioni molto diverse l’una dall’altra, stando sempre molto attenti a sollecitare l’attenzione con tutti i propri sensi. Ogni parola, ogni ripresa, ogni inquadratura hanno un senso etico. Ora, questo non significa che dobbiamo dimenticare di essere dei narratori. Quindi certe volte è necessario far venire fuori delle cose dai nostri personaggi, che magari i nostri personaggi non vorrebbero venissero fuori. Però in quel caso ci raccordiamo e rapportiamo a cosa pensiamo sia giusto che lo spettatore conosca di quel personaggio. Altre volte l’etica non sta nel fatto di aiutare una persona che sta dentro l’inquadratura e che ha una storia terribile, perché il nostro compito è quello di raccontarla al meglio. Poi, in un secondo momento, come dico ai miei studenti, se voi volete aiutarla al di fuori delle riprese è un vostro assoluto diritto. Anzi, in alcune occasioni un dovere. Senza però scordare di dover muovere e muoversi dentro il campo della narrazione.
Non è esattamente il punto del tuo film, ma un tema che gli è limitrofe è quello dell’eutanasia. Pensi che nel nostro Paese abbiamo ancora un problema a riguardo?
C’è ed è enorme. Io sono assolutamente a favore dell’autodeterminazione della propria morte. Anche se con molta attenzione, con la certificazione di medici competenti, perché sarebbe folle pensare di concedere a tutti la possibilità di togliersi la vita in maniera assistita solo perché c’è una depressione forte o perché si è alle prese con un ipocondriaco. Il medico deve accompagnare la persona a riflettere su quello che sta facendo e su come la vita possa offrire invece anche delle cose molto belle, persino nelle situazioni più estreme. Quello che osservo nel nostro Paese è che questo dibattito non è sufficientemente affrontato ed è assolutamente sbagliato non avere una legge che regolamenti a dovere l’eutanasia, per due motivi in particolare. Il primo è perché si discriminano le persone. Oggi chi può permettersi il suicidio assistito sono coloro che stanno bene economicamente, che possono recarsi in Svizzera e spendere 20.000 euro. La seconda ragione è che molto spesso si producono delle storture devastanti anche per le persone che sono intorno al malato, perché capita che così si conduca alla scelta di un suicidio ‘classico’, senza tutele. Che non è come in altre situazioni di suicidio, dovuto magari a una volontà di cessazione della propria esistenza, ma è causato dalla difficoltà di non poter più vedere togliersi tutto quello che rappresenta la dignità umana.
Quindi nelle battaglie politiche di oggi è il corpo il vero tema, il vero oggetto al centro del dibattito?
Penso che non ci sia una separazione tra corpo, psicologia e anima nella persona. Ritengo che siano veramente un tutt’uno. E devo ammettere che nonostante io sia per l’autodeterminazione, ho trovato nell’hospice la dimensione che mi appartiene di più. Perché dal punto di vista della cura del corpo qui c’è l’attutire il più possibile il dolore, e dal punto di vista della cura dell’anima c’è la spiritualità che viene tirata fuori grazie ai consulenti spirituali, ai medici palliativisti, ai supporti psicologici, a tutte le terapie anche ludiche che vengono fatte in parallelo. Per cui sì, quello è il grande tema, ma non si può pensare che il corpo sia scisso dall’anima.
Hai detto che nel girare un documentario non si deve scadere nel pietismo e nemmeno nella freddezza. Però è consentito lasciarsi toccare da un’esperienza simile. Cosa ti ha emozionato e porti di più dietro di questo percorso?
Quello che mi ha toccato maggiormente è il modo in cui tutto ciò che ho cercato in qualche modo di tenere per me, dentro, poi invece nel privato usciva fuori sotto forma anche di cedimenti emozionali. Un qualcosa di cui vado molto fiero, perché significa che in fondo siamo sempre esseri umani. Così come mi ha segnato il vedere, da una parte, queste persone che nella loro situazione erano comunque tristi di dover lasciare questo mondo. E dall’altra, quello che tutti noi ci auguriamo, il vederlo lasciare nel modo più pacificato possibile.