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Alessio Zuccari
Kinds of Kindness: recensione del nuovo film di Yorgos Lanthimos
Tags: emma stone, Jesse Plemons, Kinds of Kindness, willem dafoe, yorgos lanthimos
Lo si era intuito: Povere creature! sarebbe stata la deviazione e non il nuovo canone. Allora eccolo proprio lì, Yorgos Lanthimos, con un Leone d’oro in una mano e una manciata di Oscar nell’altra a rientrare nelle griglie e nei desideri del suo cinema. Non sono passati nemmeno i giri di un anno solare, che il regista greco e tra i più in voga del momento arriva in competizione al Festival di Cannes 2024 con Kinds of Kindness. Ritrova Emma Stone, ritrova Willem Dafoe, ritrova Margaret Qualley, ma ritrova soprattutto Efthimis Filippou. Filippou, uno dei maestri della Greek Weird Wave e del surrealismo ellenico con cui Lanthimos è in sodalizio dal 2009, a partire da Dogtooth. Insieme hanno poi condiviso la traversata oceanica che li ha portati ad Hollywood e che li ha fatti conoscere, grazie a The Lobster e a Il sacrificio del cervo sacro.
Probabilmente, questi due, ora se la ridono. Perché Lanthimos sa di aver pagato l’obolo al gusto dell’industria con La favorita e appunto Povere creature! (entrambi sotto la penna di Tony McNamara), e quindi sa altrettanto bene di essersi arrogato il diritto all’occhiolino con i soldi e con i mezzi di quell’industria. Riecheggia insomma la massima di Martin Scorsese del «one for me, one for them», anche se i two for them restano comunque due film notevoli e ben oltre il servizio.
Ma si diceva, Kind of Kindness. Che è, come l’hanno definita, una fiaba tripartita. Un piccolo compendio antologico di tre storie in cui l’amore confina con l’ossessione che finisce per contaminarsi di paranoie. “The Death of R.M.F.”, “R.M.F. Is Flying” e “R.M.F. Eats a Sandwich” sono i titoli delle tre sezioni nelle quali il film si divide, dove gli stessi attori tornano per interpretare diversi ruoli e dove la circolarità, oltre che tematica, è solo nella ricorrente figura del signor R.M.F.. Chi? direte voi. Non è importante, nel senso che non è importante per noi come non lo è importante per la sceneggiatura che lo prende a nessuno da porre nel centro decentrato dell’orgia vessatoria di Kinds of Kindness.
Questo qui è infatti un film crudelissimo e crudissimo, uno dei più spietati per un Lanthimos che tenta l’ennesima adesione del suo formalismo impeccabile (la fotografia è ancora di Robbie Ryan) al gelido di un’umanità talmente corrotta nell’animo da farsi praticamente mortifera. Non bisogna lasciarsi ingannare dalla grottesca ironia, una cifra di ritrovo che percorre il ben riconoscibile surrealismo di Filippou e Lanthimos, a sua volta, in realtà, espressione di una devitalizzazione dell’esistenza umana. Perché di affetto, nelle relazioni di Kind of Kindness, non ce n’è. Ce n’è solo l’imitazione sconnessa e scomposta; c’è la messa in performance dell’idea di affetto.
Nel primo episodio, il migliore e più riuscito, nella forma di un dipendente (Jesse Plemons, vero protagonista tra i protagonisti) di una generica multinazionale che si prostra in tutti i modi ai desideri e ai doni del proprio capo (Dafoe). Allegoria esasperata del capitalismo che plasma e intreccia con un nodo di indistricabile e perenne servilismo lavoro e vita? Si. Nel secondo racconto, dove un poliziotto (Plemons) scivola nell’imbuto mentale dove si convince che la moglie (Stone), appena tornata dopo essere rimasta dispersa per diverso tempo, non sia davvero sua moglie. Commento alla spirale di abusi e violenze domestiche dove la sua parte la gioca anche la facile permeabilità all’idea del complotto? Probabile. Nella terza e conclusiva storia, con due affiliati (Plemons e Stone) a una setta fissata con la purità che pur di restare nella cerchia ristretta del guru (Dafoe) e della sua braccio destro (Hong Chau) si mettono alla ricerca di un qualcuno che possa riportare in vita i morti. Sguardo alla fascinazione per l’idolatria in cui l’io distrugge se stesso in riconoscimento di un orizzonte? Perché no.
E insomma non c’è da sporgersi chissà quanto oltre il cornicione per leggere nelle pieghe di Kinds of Kindness l’evidente spernacchiamento ai modelli deviati di una società statunitense il cui cordone ombelicale è avvitato attorno alla propria trachea. Lanthimos e Filippou lo filtrano attraverso la loro lente che desatura ogni calore, taglia con il bisturi e anestetizza l’emozione. E dov’è ancor più evidente il gongolare consapevoli di poter fare tutto questo e con queste possibilità economiche (nel cast anche Joe Alwyn, Mamoudou Athie, Hunter Schafer). A partire dalla libertà di spezzare a proprio piacimento la ritmata colonna musicale, in un continuo ex abrupto che rilancia sopra l’aspettativa del nuovo pubblico acquisito.
Atteggiamento che fa il paio con il non districarsi dalla respingente corposità del film, dilatato corpo magno di quasi tre ore, espanse alla maniera di un volontario rendersi innecessario. Ma che in fin dei conti, a dirla tutta, svela anche un gioco meno affilato, quasi effimero. Meno fosse solo sconvolgente di quanto il percorso dei due non sia arrivato ad elaborare con più incisività in passato. Che qui, nell’intrigante scacco artistico nel reame che non gli compete, lascia molto del compiacimento e della messa alla berlina.
Kinds of Kindness è al cinema con Searchlight Pictures dal 6 giugno.