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Alessio Zuccari
FolleMente: recensione della nuova commedia di Paolo Genovese
Il Pigneto, il Mandrione, la Casilina vecchia. L’albero di Sara Petraglia, in esordio alla regia e presentato nel concorso Progressive Cinema della Festa del Cinema di Roma 2024, cartografa da subito la nuova Roma giovane dove i Millenials formano con la Gen Z un cordone di insicurezze e deragliamenti. Il sapore è immediatamente di quel tipo lì, dell’opera all’inseguimento del turbamento generazionale a cavallo tra il pre e il post pandemia da Covid-19. Il film dà a un certo punto qualche coordinata temporale anteriore – siamo in un 201X –, ma lavora in concerto al recente innalzamento folle del prezzo degli affitti, alla gentrificazione e a un generale senso di abbandono.
In mezzo a tutto questo sprofondano Bianca (Tecla Insolia) e Angelica (Carlotta Gamba), fresche ventenni amiche, confidenti, forse amanti, che dovrebbero frequentare l’università e invece non ci vanno, mentre con i soldi dei genitori comprano ogni tanto da mangiare e sicuramente quasi tutte le sere la cocaina. Si domandano se stiano esagerando, eppure intanto tirano di naso peregrinando da un locale all’altro mentre L’albero sfiora, intercetta, cerca la sensazione di un’acida coolness boheme della gioventù pignetara.
Uno sforzo, quello del lavoro scritto da Petraglia, che in qualche modo prova a mescolare una storia di dipendenza alla sostanza a un racconto di dipendenza soprattutto alla persona. Bianca e Angelica sono in costante vortice autodistruttivo, influenzate da un’idea di malsano romanticismo fondato sul consumo di coca e sulla sua spasmodica ricerca in un’esagerazione che credono controllata e che le fa arrivare addirittura a Napoli.
Insomma, un racconto così apertamente identitario (i momenti vuoti, i pomeriggi annoiati, le sere a guardare film, gli orari sregolati) da farsi però quasi artificioso nella disamina insistita del rapporto con la droga, piuttosto demodé nelle generazioni di cui L’albero vuole parlare e dove probabilmente non è la questione traumatica che tiene banco. Ben più interessante è il discorso dell’assuefazione emotiva e sentimentale a un’altra persona che contribuisce ad alimentare un circuito di decadimento fisico e psicologico. Eppure anche questo è un tema che l’opera della regista percorre nelle sue frastagliature dovute a una sregolatezza sempre controllata, sempre nel perimetro di un malessere a cui un pochino forse ammicca anche.
Un amore tossico che esplora ben poco al di là della pippata e dell’erraticità, dove alle sue due protagoniste (Insolia folletto letterario e lunatico, Gamba in performance debitrice dell’esperienza di Dostoevskij) manca uno shock concreto, una discesa reale nello squallido e nel pericolo. In sostanza una forma di contrappasso a un naufragar che è troppo dolce in questo mare, parafrasando alcune tra le parole più celebri di Leopardi, poeta che torna e ritorna in bocca a Bianca, a dirla tutta non senza stucchevolezza.
Poi anche un commento, uno specchio in quei personaggi che sono attorno e fanno poco più che da corollario. Persino quegli amici su cui Bianca sembra si interroghi («Perché siamo tutti così tristi?»), cruciali in uno snodo del film ma che L’albero non arriva in realtà mai a mettere a fuoco, a renderli interagenti al declino a cui Bianca e Angelica stanno andando incontro. La cosa che più manca, allora, è la possibilità di adesione empatica a queste due, considerate da Petraglia in maniera troppo rassicurante, troppo goffe, troppo alla scoperta e troppo poco per ciò che realmente sono: a un metro dal baratro.