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Alessio Zuccari
La trama fenicia: recensione del film di Wes Anderson
Tags: benicio del toro, La trama fenicia, Mia Threapleton, Michael Cera, wes anderson
In sede di recensione del suo precedente lungometraggio, Asteroid City, ci domandavamo se Wes Anderson si fosse perso. Elevata la forma, alla sostanza che rimaneva? Un pulviscolo depositato troppo docile sulle distese del deserto in cui Anderson dichiarava la propria resa a uno spaesamento artistico; autore in cerca di personaggi. L’arrivo de La fantastica storia di Henry Sugar fu però un punto di svolta. Non per il ravvedersi, ma per l’aperto e lucido sdoganamento del meccanismo in relazione alla struttura.
Cioè quella del cortometraggio (che lo portò a vincere un Oscar), sistema breve, immediato ed ideale in cui dichiarare senza rimpianti la spudorata fascinazione per il sistema stesso, per il suo funzionamento e la sua capacità di ricombinarsi ancora e ancora in una moltitudine di vignette tridimensionali. Allora è grazie forse soprattutto a quest’ultimo atto di sublimazione che oggi esiste La trama fenicia, presentato in competizione al Festival di Cannes 2025. Opera in parte liberatasi dall’asfissia di una perfezione compositiva sopraggiunta e con nulla a cui tendere di più, e che così lascia tornare a respirare dentro la griglia, marchio di fabbrica non più castigante.
Dentro il palcoscenico formalistico si ascolta così il ritorno della pulsazione cardiaca, che batte sotto la superficie algida dei suoi tre protagonisti. La loro, si svelerà, è questione di facciata e deformazione professionale. Zsa-zsa Korda, un imprenditore spregiudicato e senza scrupoli nel volto di bronzo di Benicio Del Toro. Sua figlia Liesl, promessa suora che col padre non ha rapporti da anni e che da un giorno all’altro si ritrova designata erede di un impero di vizi e avidità accolti negli occhi blu della sorprendente rivelazione Mia Threapleton (figlia d’arte di Kate Winslet). Il damerino Bjørn, precettore con più verità di quelle che dice, incanalate nel perfetto corpo andersoniano di Michael Cera, già di suo tra il caricaturale e il tratto in matita colorata.
Una faccenda di famiglia, insomma. Da sempre il nucleo tematico esploso nel cinema del regista texano, dove in questa occasione da riarrangiare è un rapporto tra prole e paterno. Rapporto che a dire il vero non è mai stato (altra cifra ricorrente, quella della negazione genitoriale) e allora occorre stipularlo nell’unica lingua che si parla nel mondo di Korda, cioè quella dei contratti tra clausole, cavilli e percentuali. Do ut des. A scandirne i rintocchi di quanto l’uno sia padre e di quanto l’altra sia figlia c’è il grande schema imprenditoriale ordito dall’uomo – figura ispirata allo scomparso Fouad Malouf, suocero di Anderson e uomo d’affari libanese, progetto per andare all-in ed erigere titaniche opere nel Medioriente fittizio della Fenicia, polveriera contesa da svariati interessi economici che durante la Guerra fredda dibattono su come spartirsi questo e quello.
In superficie La trama fenicia si diletta con la parcellizzazione di debiti e favori, coinvolgendo in un variegato ed esotico girotondo per il globo la consueta giostra di attori (Tom Hanks, Bryan Cranston, Riz Ahmed, Mathieu Amalric, Richard Ayoade, Jeffrey Wright, Scarlett Johansson, Benedict Cumberbatch). E nella trovata di un film di spionaggio rimbalzato qui e lì nidifica un inedito tratto politico, dove tutto è fiche sul tavolo da gioco, dove pure matrimonio, affetti e parentele sono asset commerciali e dove l’individuo è ridotto a ciniche valutazioni numeriche.
Anderson torna così a subordinare il suo “sistema a scatole di scarpe”, dalle quali tira fuori le miniature della propria avventura, a un chi e a un perché. Forse c’è persino un suo riflesso in Korda: uomo che se pure bofonchia cose come “a me non servono i diritti umani”, in realtà nel progredire matematico delle sue cervellotiche macchinazioni ravvisa a un certo punto il raffreddarsi mortifero della propria opera-esistenza. Lui si ravvede a contatto con la morte, tradotto in divertenti epifanie in bianco e nero di un paradiso dove di sacro c’è ben poco.
Anderson invece ritrova la luce sulla strada per la Fenicia, dove l’impeccabile composizione si lascia mettere in questione dalla vitalità multiforme e contraddittoria dei personaggi. Che a un certo punto riescono a spezzarla, a fuoriuscire dai bordi, a far tremare il cavalletto su cui poggia l’occhio che comanda. Non è una rivoluzione, ma è una piccola rivoluzione. L’inizio di un nuovo percorso? Chissà. Frankenstein sembra però tornato ad amare l’anima delle sue frammentate creature, forse di nuovo tali e non più solo marionette di cera.