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Martina Barone
Le otto montagne: recensione del film Alessandro Borghi e Luca Marinelli
Tags: alessandro borghi, Le otto montagne, luca marinelli
Le otto montagne” racconta la storia di un’amicizia. Un’amicizia nata tra due bambini che, divenuti uomini, cercano di prendere le distanze dalla strada intrapresa dai loro padri ma, per le vicissitudini e le scelte che si trovano ad affrontare, finiscono sempre per tornare sulla via di casa. Pietro è un ragazzino di città, Bruno è l’ultimo bambino di uno sperduto villaggio di montagna.
Negli anni, Bruno rimane fedele alle sue montagne, mentre Pietro è quello che va e viene. Il loro incontro li porterà a sperimentare l’amore e la perdita, riconducendo ciascuno alle proprie origini e facendo sì che i loro destini si compiano, mentre i due scopriranno cosa significa essere amici per sempre.
Nel cast: Luca Marinelli, Alessandro Borghi, Filippo Timi, Elena Nietti, Elisabetta Mazzullo
Luca Marinelli e Alessandro Borghi sono i nostri due divi italiani. Gli interpreti hanno lavorato insieme per la prima volta sette anni fa, per il cult Non essere cattivo di Claudio Caligari, diventando nel tempo amici e volti irrinunciabili del panorama nostrano, divisi nel successivo periodo ognuno con la sua carriera eppure sempre abbinabili proprio per l’iconicità che sono stati in grado di suscitare.
Un duo che perciò, a distanza di tempo, torna insieme sul grande schermo, anche se non sembra essersi mai separato. È con due registi stranieri, Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, che gli interpreti siglano i dettami della proprio amicizia, non più solamente fuori dal cinema, ma anche al proprio interno, diventando protagonisti di un’opera come Le otto montagne, rinomato libro detentore del Premio Strega e opera insignita del Premio della Giuria alla 75esima edizione di Cannes.
Il film è infatti l’operazione di adattamento dal romanzo di Paolo Cognetti, che gelosamente ha custodito il legame tra i protagonisti Pietro e Bruno finché non è stato sicuro di poterlo affidare a artisti e persone che ne cogliessero a fondo la natura silente e meditativa. Che comprendessero il filo che intersecava i destini di quegli amici di infanzia, ritrovatisi da adulti a condividere il desiderio di un padre ormai morto, quello vero che Pietro ha sempre maltrattato e che per Bruno era diventato il sostituto di quel genitore che, invece, lo aveva abbandonato.
Un riallacciare solo perché costretti anni addietro a doversi dividere, sapendo in fondo che non ci sarebbero più stati altri addi da dover affrontare, unendosi mano a mano che la pellicola va avanti e che il loro rapporto si solidifica come il cemento utilizzato per costruire assieme una casa. Un luogo, quella dimora lassù sulla montagna, abitata solamente d’estate e nido di entrambi quegli uomini a cui non servono tante parole per capirsi e le cui frasi brevi e dirette rappresentano un intero mondo.
“Vuoi che vengo?” “Sarebbe bello”. Semplici e netti, i dialoghi di Le otto montagne si abbinano all’animo ombroso del montanaro Bruno e allo spirito irrequieto di un Pietro che ci metterà anni, forse anche di più, per capire qual è il proprio posto all’interno del mondo. E se il sentimento fraterno tra i protagonisti aumenta col ritrovarsi in fase adulta dei personaggi, a toccare la cima è proprio il momento della costruzione di quel riparo che equivarrà a una roccaforte in cui poter continuamente tornare. In cui stare insieme con “Un falò, un pesce, tu. Starei così per sempre”.
Ma proprio perché Le otto montagne raggiunge il proprio apice a quasi metà film, è inevitabile che il successivo proseguo vada a dettare una discesa a valle dell’opera di Van Groeningen e Vandermeersch. Volendo raccontare tanto, sapendolo anche fare non aggravando mai con eccessi la pellicola, gli autori tergiversano troppo dopo l’edificazione di quella casa-simbolo, rimanendo a navigare a vista di fronte alle molteplici possibilità e alle altrettante strade da voler e poter intraprendere.
Vie che i registi e sceneggiatori scelgono di battere tutte, non facendo una selezione o focalizzandosi su un solo punto, lasciando così che lo spettatore venga travolto da una valanga di stimoli e informazioni che perdono un po’ della loro presa a causa del grande quadro in cui si trovano.
Un andare avanti, un incamminarsi anche quando sembra esserci meno da dirsi, che fa perdere leggermente l’appiglio del pubblico il quale è rimasto meravigliato fino a quel momento dalla potenza della catena montuosa, riverberata nella crescita dell’amicizia dei protagonisti, ma che finisce per allentarsi scivolando su un terreno scosceso e roccioso. Un continuare a godere dei paesaggi in formato 4:3 della pellicola e vedendo in quel frammento tutto ciò che hanno da dirsi (a parole o meno) Pietro e Bruno.
Due interpreti stupendi che con pochissimo regalano performance piene di significato e che proprio quando vengono inquadrati da un lato o lasciati soli ad un angolo dell’immagine riescono a restituire l’interiorità dei propri personaggi. Un film che quella vastità della montagna ha cercato di ridurla e incanalarla, riuscendoci solo in parte, offrendo comunque un bel film di cui andare fieri per la sua co-produzione italiana.