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Martina Barone
Venezia79 | L'immensità: recensione del film con Penélope Cruz
Tags: L'immensità, Penelope Cruz, Venezia79
Emanuele Crialese torna dopo undici anni dall’ultimo film con L’immensità, pellicola che richiama il suo secondo lungometraggio Respiro con Valeria Golino
Nel 2002 Emanuele Crialese si approcciava al suo secondo lungometraggio Respiro. Il film viene insignito al Festival di Cannes del Grand Prix e riceve riconoscimenti e plauso anche in patria. La storia è quella di una famiglia in una Sicilia ferma nel tempo, quella in cui l’uomo è il solo a detenere il potere all’interno delle decisioni private e della vita cittadina, mentre la controparte femminile deve sottostare alle sue silenti, ma oppressive leggi. Quelle condivise dal senso comune, dalle stesse madri o sorelle legate a un retaggio culturale radicato e inespugnabile che asseconda le pressioni e il legiferare degli uomini. Una società, seppur in piccolo visto il paesino in cui sono inseriti i personaggi, a cui la protagonista di Valeria Golino decide di non ubbidire. Affetta da depressione, la donna è vista come l’elemento di vergogna dell’intero centro abitato, così radicale nel suo uscire dagli schemi poiché sono stati proprio quelli a farla ammalare.
A vent’anni di distanza e undici dal suo ultimo film Terraferma (2011) Crialese torna dunque riprendendo in mano il medesimo racconto ambientandolo in una Roma anni Settanta dove ai piedi scalzi e al lavoro manuale di Respiro viene sostituita una borghesia piena di vizi e di infelici ipocrisie. Quella in cui la Grazia di Valeria Golino ne L’immensità assume i contorni e il volto della Clara di Penélope Cruz, incapace di tollerare ancora le sofferenze di un’esistenza dettata da un marito assente e traditore e da un contorno familiare in cui sentirsi la sola estranea. Aliena, come crede di essere la figlia Adriana, che in realtà vuole farsi chiamare Andrea. L’immensità accarezza nuovamente personaggi esclusi dal senso comune e decisi, a loro modo, di rimanere tali. Piegandosi o combattendo, assecondando o ribellandosi, sapendo però di non essere affatto come gli altri.
Seppur ne L’immensità è con il personaggio di Adriana che l’opera conduce gli spettatori a sbirciare all’interno di una casa che affaccia le proprie finestre su di una Capitale indietro nel tempo, proprio come in Respiro è in verità la propria madre a focalizzare l’attenzione del pubblico, così come fa con quella della sua primogenita. Un altro rimando alla centralità della crescita e dell’infanzia che anche nel film del 2002 faceva del figlio Pasquale l’occhio attraverso cui osservare i gesti e gli umori di quel genitore così distante da tutto e proprio per questo avvolto da una forza magnetica.
Nel desiderio di proteggere la fragilità di una donna troppo sensibile quanto bella (“La smetti di essere bellissima!” le urla Adriana dopo che un paio di uomini hanno provato aggressivamente ad abbordarla) c’è la brama di Pasquale di tenere privata e nascosta la propria madre. Bambini che sono guardiani e adulti di genitori che sentono o almeno credono di dover difendere. Ingenui però nel credere di potercela fare, scoprendo che per loro ancora non è arrivato il momento di far parte del mondo dei grandi.
Agli sbalzi di umore di Grazia, Crialese stavolta alterna nel personaggio di Clara il senso di comprensione e di gioco che la donna insegue, così come quella interpretata da Valeria Golino cercava di raggiungere spogliandosi e buttandosi in acqua. Solamente nell’universo dei bambini le due donne si sentono davvero libere, felici. Si divertono, scherzano senza vergogna, si dimenano e urlano come viene impedito di fare loro nelle quattro mura della casa. Ma quella che in entrambi i casi è semplicemente voglia di potersi esprimere, di lasciare alla propria personalità di saltare fuori non dovendo sottomettersi a quella che viene imposta da altri, viene vista come malattia e squilibrio da dover curare. È indecenza e mancanza di controllo che non fa né di Grazia, né di Clara delle brave donne. O madri, o mogli.
Ma se in Respiro l’anima campestre e naturalistica permetteva alla protagonista di poter scappare e tuffarsi, ne L’immensità è il costrutto sociale a primeggiare in un ambiente con delle regole ancora più sottaciute e, forse proprio per questo, così violentemente rigide. A Clara non è concesso di togliersi le vesti, le viene detto di non gridare, di non fare la drammatica. Anche i suoi figli, consci delle convenzioni a cui devono rapportarsi pur cercando anche loro di divincolarsene, vogliono rimetterla in ordine, immaginando solamente come potrebbe essere se la madre potesse davvero danzare e lasciarsi andare, magari seguendo qualche passo come quelli di una Raffaella Carrà che balla e si dimena alla televisione.
Ma nonostante l’affinità con un’opera come Respiro, a L’immensità manca una poesia che meglio aleggiava nel film di inizio Duemila e che pur riproposta sotto un’altra veste non ne contiene la stessa potenza che era stata in grado di sprigionare. Nell’opera con Penélope Cruz e Vincenzo D’Amato, sempre lui marito della Golino nella pellicola e fedele attore di Crialese, le sequenze sembrano succedersi avendo come collante semplicemente un’idea, un concetto da voler portare avanti, senza poi realmente concretizzarne il contenuto sotto forma di narrazione. Alla bellezza di alcune scene più evocative, come i momenti di svago dei bambini e i loro passatempi, si alterna una mancanza di progressione del racconto che lascia inconsistente quest’immensità che i personaggi vogliono raggiungere. L’attesa di un segno, di un messaggio da un altro pianeta che non arriverà. Di un’aspirazione come quella a cui i personaggi auspicano, ma che li tiene imprigionati a terra.