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Roberta Panetta
The White Lotus 3 recensione: la satira sociale sbarca in Thailandia
L’imminente uscita del thriller true-crime con Keira Knightley, Carrie Coon, Alessandro Nivola
e Chris Cooper Lo Strangolatore di Boston, la storia dedicata alle giornaliste pioniere che hanno raccontato la storia dei famigerati omicidi dello Strangolatore di Boston degli anni ’60, ci offre l’occasione per ripercorrere il rapporto fra Hollywood e il giornalismo d’inchiesta attraverso la narrazione di un film ammirevolmente ambizioso ma irrimediabilmente deforme rispetto alla realtà.
Fin dai tempi della Golden Age del cinema americano, arrivando ai giorni nostri, il cosiddetto giornalismo d’inchiesta ha offerto infatti a registi e sceneggiatori un ventaglio di potenzialità tutt’altro che indifferente.
Dalla natura di quotidiano eroismo insita nell’attività del “cronista d’assalto” ai dilemmi morali e deontologici che possono sorgere all’interno di una redazione, Hollywood non ha mancato di esplorare e di rielaborare gli aspetti più complessi e avvincenti del lavoro del giornalista. Negli ultimi anni, del resto, anche la TV si è rivolta in questa direzione, per merito di una penna superba come quella di Aaron Sorkin, creatore e showrunner della serie The Newsroom, incentrata proprio sulle responsabilità etiche dei giornalisti (nel caso specifico, la redazione di un importante notiziario televisivo) nei confronti dei loro lettori e spettatori. Ma è il caso di citare altre pellicole da Oscar: Il Caso Spotlight e The Post, tanto per citare i più recenti.
É oggi Hulu – qui in Italia il brand Star di Disney+ – a riportare il giornalismo d’inchiesta in cima all’attenzione del pubblico, attraverso i fatti de Lo Strangolatore di Boston. Il film segue Loretta McLaughlin (Keira Knightley), una reporter del quotidiano Record-American, che diventa la prima giornalista a trovare una correlazione tra gli omicidi dello Strangolatore di Boston. Mentre il misterioso assassino miete sempre più vittime, Loretta cerca di continuare le sue indagini insieme alla collega e confidente Jean Cole (Carrie Coon), ma il duo si trova ostacolato dal dilagante sessismo dell’epoca. Ciononostante, McLaughlin e Cole portano avanti la storia correndo un grande rischio personale e mettendo a repentaglio le loro stesse vite nel tentativo di scoprire la verità.
Il personaggio di Keira Knightley è una reporter di lifestyle con l’aspirazione per qualcosa di diverso da una recensione dell’ultimo tostapane. Senza mentore e senza un percorso chiaro per l’avanzamento professionale, è lasciata a pubblicare in modo passivo-aggressivo, su una bacheca di una redazione, articoli ritagliati da altri giornali che hanno raccolto lei e le sue colleghe. Un ruolo che le sta stretto, perché alla fine Loretta si fa strada per scoprire i dettagli attorno a una serie di omicidi locali irrisolti nel suo tempo libero. Quando riesce a confermare alcuni aspetti condivisi sui cadaveri ritrovati, la natura connessa degli omicidi scatena una frenesia mediatica che nutre l’intera economia del racconto de Lo Strangolatore di Boston. Lungo l’indagine, Loretta fa coppia con la collega navigata e schiva Jean Cole (Carrie Coon), ma devono affrontare un odioso respingimento strutturale caratterizzato da sistemi di potere e da una esagerata dose di sessismo. Non solo, le due giornaliste fanno i conti con una totale mancanza di condivisione di informazioni interdipartimentali riscontrando come tale carenza di professionalità dei dipartimenti di polizia influenzi in malo modo la traiettoria (e la validità) dell’indagine. Il regista Ruskin e il cast tecnico, in generale, se la cavano bene. Il direttore della fotografia Ben Kutchins contribuisce a un lavoro coinvolgente. E la scenografia e i costumi del film comunicano – nel loro centrare la funzionalità e il grigiore chic, rispettivamente – l’oppressione del modo in cui le cose sono e l’attrito sui tempi che cambiano.
Con la sua intensa attenzione al gioco giurisdizionale e all’intrepida cronaca, Lo Strangolatore di Boston analizza un groviglio di complotti e stati d’animo generali del periodo. Il suo più grande scopo narrativo, però, non viene mai messo totalmente a fuoco dai personaggi, che offrono solo una profondità minima. Nessuna delle morti significa molto, dal momento che non ci viene chiesto di empatizzare con le vittime.
Mentre la pellicola fa un buon lavoro nel rimpolpare la pressione e le richieste rese dai personaggi di Loretta e Jean, le giornaliste non sembrano però avere multidimensionalità e rappresentano semplicemente “un tipo”. Knightley, e in particolare Coon, forniscono tutto il sostegno che possono alla narrazione, ma la scrittura non particolarmente precisa rende lo spettacolo poco straordinario.
Pesante nel raccontare gli omicidi in città, il film di Ruskin manca di scene avvincenti e piene di pathos. Per lunghi passaggi arranca semplicemente, offrendo un coinvolgimento solo in superficie. Quando le cose richiedono una scossa informativa, la regia si limita a donarci una semplice telefonata da un agente di polizia di New York o un improvviso incontro con un loquace poliziotto locale.
Lo Strangolatore di Boston è forse più interessante ai margini, ne è un esempio la descrizione del legame tra Loretta e il detective Conley (Alessandro Nivola), che si incontrano occasionalmente per condividere dettagli sugli omicidi. Ma non è sufficiente se lo si affianca al The Boston Strangler del 1968. La versione del 2023 di questo racconto è incentrata sulle donne che hanno svelato la storia e l’hanno denunciata. Potrebbe e dovrebbe essere più interessante, ma invece non offre alcuna nuova illuminazione, solo una versione diversa di un caso complesso e mai realmente risolto.