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Alessio Zuccari
FolleMente: recensione della nuova commedia di Paolo Genovese
Che sia la miglior operazione a basso budget del 2024 probabilmente non è nemmeno cosa da discutere. Longlegs è arrivato a chiunque, ancor prima di arrivare al cinema. Neon, casa di distribuzione tra le più quotate ed efficienti degli ultimi anni – per intenderci: si è accaparrata dal 2019 ad oggi i diritti di sfruttamento nordamericano di quattro Palme d’oro –, ha lavorato in maniera aggressiva e oculatissima sul marketing del nuovo film horror-thriller di Osgood Perkins. Il gioco di tensione che è il cuore di questa pellicola, dal budget inferiore ai 10 milioni di dollari, inizia ben prima dei titoli di testa, tra clip, trailer, immagini e suggestioni rilasciate a formare un corpo d’indagine a monte dell’indagine stessa. A rischio di anticipare troppo? No, anzi.
Perché il film che Perkins scrive e dirige è un mutaforma che attraversa diversi stadi evolutivi. L’investigazione è il punto di partenza. È quella che prende in carico la giovane agente dell’FBI Lee Harker (Maika Monroe, volto perfetto e rodato; ricordate It Follows?), notata dal superiore Carter (Blair Underwood) per una ragione specifica: Lee sembra avere un particolare sesto senso. Viene così introdotta agli omicidi di un killer di famiglie che si firma con il nome di Longlegs, solito lasciare lettere sulle scene degli assassinii che ha compiuto nell’arco di trent’anni, dai Settanta ai Novanta. Con due particolarità: tra le vittime c’è sempre una figlia che compie gli anni il 14 del mese e l’apparente assenza di qualsiasi passaggio del carnefice sui luoghi delle stragi.
Da questi ambienti del delitto di un Oregon glaciale, deserto, liminale, dai cifrari, documenti, polaroid e materiali tutti che vogliono architettare da subito la sensazione d’analogico e dell’infestazione che può abitare questo analogico, si attiva allora un poliziesco procedurale che però non è mai il punto. Lee infatti risolve e liquida in fretta gli elementi da giallo puro, spostando di continuo la bussola di Longlegs. Che si contamina presto e apertamente del sovrannaturale, dell’eredità settaria degli Stati Uniti e di elementi via via più deragliati che spostano il baricentro sempre all’interno di un perimetro che rimane fedele a un’unica intenzione, quella del disturbante.
Perkins lavora su un horror d’osservazione, con una regia che spesso porta la camera a insistere e indugiare avanti, indietro, di lato rispetto a come e dove si muove chi sta in scena, obbligando a guardare, a speculare che qualcosa si possa annidare nella fissità delle immagini. Sarà pure un cliché, una tecnica base, ma è innegabile che si sposa alla perfezione a come il regista vuole ragionare in ottica di creazione della tensione attraverso le abilità para-occulte e le persecuzioni interiori che caratterizzano la protagonista e i fili che la legano al killer.
In questo Longlegs è sfacciato. Sa, e calca la mano, che il suo linguaggio estetico autoriale e sofisticato è solo un meccanismo con cui lasciare il brivido ad altezza epidermide. Per questo i personaggi lavorano spesso di notte, agiscono in maniera talvolta controintuitiva o rispondono più a funzioni che a elaborazioni. Perkins sottrae dal dialogo e alle logiche pure per affidare tutto a primi piani, sguardi, respiri e presenze sceniche. Come quella di Nicolas Cage (che il film lo produce anche attraverso la sua Saturn Films), presente da subito ma disvelato poco a poco, che lavora l’inquietudine del suo Longlegs con un tono sempre alto, da marionetta, e per questo, infine, forse un pelo meno agghiacciante di quanto ci si potesse aspettare.
L’attenzione del film sta insomma tutta nel costruire un’idea di mondo attorno ad aspetti esoterici (cosa che a Perkins riusciva, in modo più pretestuoso, già nel precedente Gretel & Hansel) e indecifrabili. O probabilmente sarebbe più corretto dire che non è importante decifrare. Non avrete, ad esempio, mai risposta al perché il killer si fa chiamare in quel modo. Per questa ragione quando nella porzione centrale del film arriva una flessione sulla tenuta della struttura investigativa e da caccia all’uomo, capisci che Longlegs ti ha già fatto entrare, e comprendere, il suo desiderio di angustiare con un malessere trascinante.
Si tratta insomma di un lavoro validato dal e nel suo stratagemma di perenne traslitterazione della grammatica di genere e di declinazione all’interno del genere, nei quali però non scende mai davvero a fondo. In questo c’è furbizia (per alcuni potrà essere malafede), è vero. Anche nell’avvicinamento a personaggi forse più paravento che ermetici – non fa eccezione quello molto interessante della madre di Lee (Alicia Witt). Per goderselo bisogna allora scegliere di starci, entrare nel pentacolo e lasciare che il film getti un velo nero addosso.
Longlegs sarà al cinema dal 31 ottobre con Be Water e Medusa Film.