Festival, Recensioni, Top News
0
Alessio Zuccari
RoFF19 | Mani nude, la recensione del film di Mauro Mancini
Tags: alessandro gassmann, festa del cinema di roma, Francesco Gheghi, Mani nude, Mauro Mancini, RoFF19
Finalmente un film italiano di genere duro e disperato. Mani nude di Mauro Mancini è implacabile e senza un orizzonte di fuga. La dannazione in terra, di recente, l’hanno affrontata a dire il vero anche i fratelli D’Innocenzo con la loro prima serie, la nerissima e asfissiante Dostoevskij. Eppure l’opera di Mancini, scritta assieme a Davide Lisino a partire dal libro omonimo di Paola Barbato, stupisce per come non si tiri indietro in una altrettanto infernale discesa nel baratro.
Non lascia respiro fin dai suoi primi momenti, non c’è tempo di orientarsi. Davide (Francesco Gheghi, fresco del premio al Miglior attore per Familia, in Orizzonti al Festival di Venezia 2024) si allontana per un attimo dalla pista da ballo di una discoteca e viene rapito. Qualcuno lo carica su un furgone e poi lo butta nella cella di una immensa nave cargo ancorata chissà dove. C’è una ragione, la scopriremo, ma intanto Minuto (Alessandro Gassmann) è l’aguzzino che gli spiega come stanno le cose. Davide ora fa parte, da schiavo, di un’organizzazione criminale che addestra ragazzi per battersi in incontri clandestini all’ultimo sangue. L’unica cosa che può fare adesso è accettarlo.
Da una premessa tanto drastica, Mani nude costruisce una narrazione fatta solo di sangue e lacrime sul volto via via tumefatto, imbruttito, lacerato di Gheghi – che ritrova Gassmann dopo Mio fratello rincorre i dinosauri, che a sua volta torna a collaborare con Mancini dopo l’esordio al lungometraggio di Non odiare. Nella prima parte la pellicola del regista infatti elabora e attinge alla struttura del film sportivo classico, prendendo l’underdog, lo sfavorito, e portandolo a essere una figura capace di contendersi qualcosa in un contesto estremo come quello in cui è immerso Davide. Dove si entra in due nel ring e, se va bene, se ne esce da soli. La sceneggiatura ne snellisce l’impalcatura, ma gli elementi chiave restano. Un allenatore e mentore, un compagno di lotta (il Puma di Paolo Madonna), un villain – nell’ombra anche quello di Amato (Renato Carpentieri).
Tutto quanto è però inscritto all’interno di un arco più ampio, che vuole discutere altro, ma che assorbe un genere cinematografico ben chiaro e lo ibrida in un’opera acida nei suoi toni intensissimi di verde e di rosso – prendetela con cautela: in alcuni istanti sembra quasi il Nicolas Winding Refn di Pusher o Solo dio perdona. E Mani nude lavora benissimo nell’asfissia di inquadrature angolari e spazi stretti di ambienti industriali, meccanici, freddi. Che poi cambiano e variano con le arene dei combattimenti, che nella composizione, e per come le riprende Mancini affollate dal pubblico in cerchio attorno allo scontro, paiono quasi ricordare quelle di videogiochi picchiaduro come Tekken o Street Fighter.
Nel momento in cui la pellicola pare essere allora instradata su questo racconto di cattività aspro e crudele, arriva uno scossone. È la svolta piuttosto anomala di un intreccio capace di cambiare drasticamente sull’andamento, rivoltandosi in qualche modo alla propria natura. Scelta interessante, soprattutto pericolosa, sulla quale si può dire poco e che rappresenta una sfida che il film vince con qualche riserva. Questa seconda sezione è quella infatti più soggetta a delle lungaggini che un poco minano la solidità del racconto per come ha fatto arrivare i suoi personaggi fino a quel punto. Il rapporto tra Davide e Minuto muta, con certi momenti quasi da padre-figlio che paiono un po’ troppo comandati dalla sceneggiatura e che nonostante ciò trovano una connessione di notevole intensità tra Gassmann e Gheghi.
Mani nude è in fondo il racconto di una virilità che tramanda solo i suoi lati peggiori, e la seconda metà del film (che ne dura poco più di due) lavora in questa direzione. Emblematica infatti è la quasi completa mancanza del femminile, che compare in questa porzione solamente in due circostanze cruciali che riguardano Davide. La prima come un miraggio di ritorno alla vita normale (Fotinì Peluso), la seconda come un flashback gelido che mostra il momento in cui quella vita normale ha iniziato a sgretolarsi (Giordana Marengo).
E quando ancora Mani nude sembra aver trovato un nuovo, agognato, respiro, arriva come una batosta il finale. Dove tutto torna, dove il cerchio si inabissa ancora più in profondità rispetto a quanto già non sia calata questa terribile storiaccia. Tutto finisce avvolto in un’ultima inquadratura di estrema cupezza, che lascia sulla pelle dei brividi non facili da scrollarsi di dosso.
Mani nude sarà al cinema con Eagle Pictures.