Top News, Festival, Interviste
0
Alessio Zuccari
42TFF | n-Ego, Eleonora Danco: "Per creare un impatto devi esporti ed essere disposta a cadere"
Tags: 42TFF, Eleonora Danco, n-Ego
Film, performance teatrale, indagine antropologica. n-Ego di Eleonora Danco raccoglie al proprio interno tutto questo. L’autrice torna infatti al cinema per la sua seconda volta, in Concorso al Torino Film Festival 2024 e a dieci anni di distanza dal suo esordio n-Capace, presentato sempre nella kermesse del capoluogo piemontese.
Un’opera che rifugge classificazioni nette e si alimenta di un grande slancio emotivo, alternando la presenza e le confessioni dell’alter ego di Danco, in giro per una Roma cartografata in lungo e largo, alle interviste delle persone che abitano gli spazi anche più in ombra della città. E al rivelarsi progressivo della protagonista, che affronta insicurezze e questioni personali irrisolte, n-Ego scende in profondità nel vissuto di chi di volta in volta è interrogato davanti la macchina da presa. Ne abbiamo parlato con la regista in occasione del passaggio del film al festival.
Con n-Ego serve partire dalla radice. E la radice in questo film sta già nel titolo, in quella N. Cosa rappresenta per lei?
La N sta per negazione. Negare l’ego. E negare, o meglio sarebbe dire rimuovere, la realtà. La rimozione è una cosa che l’essere umano è condannato ad avere. Ma poi c’è anche quel trattino, che rappresenta una spinta, un trampolino verso la volontà di mantenere, di far rimanere più possibile vivo, quello che volevamo essere da giovani e da adolescenti. Che è un qualcosa da non tradire mai.
Nel film lei si espone molto. Ed è come se attraverso questo suo aprirsi trovasse la chiave con cui poi andare a chiedere agli altri di rivelare loro stessi. Si tratta di un tentativo di portare nel cinema il patto di scambio e di presenza che c’è a teatro tra il performer e chi ha di fronte?
Sì, mi espongo molto, e va detto che da questo punto di vista trovo il film molto coraggioso. Metto in piazza tutte le mie cose, le questioni economiche, il rapporto con mio padre. Ma non penso che sia un patto. Diciamo che è una necessità per creare qualcosa. Nell’arte devi sempre cercare nella comunicazione qualcosa di impatto, in grado di colpire. Altrimenti è solo soporifero. E per creare un impatto ti devi esporre, ti devi scoprire, devi essere disposta a cadere. Devi smuovere chi ti sta di fronte. Io quando ero piccola e mi portavano a teatro mi annoiavo dopo tre minuti, mi perdevo. Mi piaceva molto il palcoscenico, ma non mi piaceva quello che vedevo. Poi in seguito ho visto Peter Brook, che mi ha folgorata. Ma ho sempre pensato che se faccio un lavoro, se faccio una cosa mia, voglio che le persone non si distraggano. Quindi per fare questo devi avere un impatto diretto, lo devi anche chiaramente modulare, come nella musica. Con dolcezza, con violenza. Persino la violenza ha una sua vitalità e fa parte della vita, anche se è difficile accettarla.
In questo viaggio di introspezione ed esorcismo lei percorre Roma e i suoi luoghi, da sud a nord, passando per il Lungoteve e poi anche Terracina, sua terra di origine. Che rapporto ha con gli spazi della città?
Per me Roma è fondamentale, perché Roma è caos. Non potrei fare quello che faccio da nessun’altra parte. Mi piace moltissimo Torino, mi piace Bologna, però probabilmente non riuscirei a fare le cose che faccio se non fossi in quel delirio di bellezza e di caos che è questa città.
E nel mezzo di questi luoghi trova un’umanità estremamente variegata. Con quale approccio si è avvicinata a loro? Si è sentita più una confidante o un’antropologa?
Non devi avere troppo chiaro quello che fai, perché per farlo non c’è un modo esatto. Non è un compito, è più una condizione. La condizione di come vivi, di come sei, di come crei le tue cose. Quindi viene da sé. Non pensavo assolutamente a fare un’indagine antropologica, però chiaramente quell’aspetto c’è, perché comunque ho scelto, distinto. Si è trattato di un avvicinamento visivo, fisico, a partire dai volti e dall’energia che trasmettono le persone.
Sui suoi profili social lei porta avanti da anni questa performance che la vede sdraiarsi a faccia in giù in tutti i posti in cui capita, ed è una cosa che ricorre anche in n-Ego. Perché la scelta di utilizzare il proprio corpo in questa maniera?
Innanzitutto perché mi diverto molto. Ma poi anche perché è un modo letterale di metterci la faccia. E metterci la faccia significa anche schiantarsi, stare lì, stare in balia del mondo che hai attorno.
Questo è il suo secondo film, dieci anni dopo n-Capace, presentato proprio a Torino nel 2014. Le seconde volte sono sempre una conferma o una smentita, oppure un’ulteriore domanda. Lei cosa ha trovato in questa seconda esperienza cinematografica?
Ho trovato qualcosa di bello e avvincente. Ma anche qualcosa di molto complesso, molto difficile, perché nel cinema si lavora con tante persone. Devo ringraziare sicuramente Marco Tecce, che ha creato il montaggio del film e a cui devo moltissimo. Ha fatto veramente un lavorone, a fronte poi di tutte le ore di girato che c’erano. Ma anche i direttori della fotografia Martina Cocco e Francesco Di Pierro, tutti quanti hanno dato un supporto fondamentale, così come nei costumi Alessandro Lai. È un lavoro collettivo, quindi è uno stimolo diverso rispetto al teatro, anche più complicato, perché le decisioni le devi prendere con chi ti circonda. Sul set devi creare complicità e intimità, e la devi creare di momento in momento. Quindi sì, è stata una grande conferma.