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Paddington in Perù: recensione del film di Dougal Wilson
Alessio Zuccari

Paddington in Perù: recensione del film di Dougal Wilson

Tags: antonio banderas, Dougal Wilson, olivia colman, Paddington in Perù
Paddington in Perù: recensione del film di Dougal Wilson
Paddington in Perù: recensione del film di Dougal Wilson

Paddington in Perù: recensione del film di Dougal Wilson

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Alessio Zuccari
Tags: antonio banderas, Dougal Wilson, olivia colman, Paddington in Perù

L’orsetto più amato del cinema torna nel terzo capitolo di una saga che cambia molte delle carte in tavola.

Puoi togliere Paddington dall’Inghilterra, ma non puoi di certo togliere l’Inghilterra da Paddington. È la grande questione che ha tenuto tutti i fan dell’orsetto sulle spine: dopo la vetta del secondo film dedicato al personaggio, diventato istituzione culturale di un’intera nazione, cambiare di netto è davvero la soluzione per inverdire ancora la saga? Perché come recita il titolo, Paddington in Perù, si lascia Londra e si vola oltreoceano tra i rigogliosi paesaggi del Paese sudamericano.

Non solo. Cambia anche la regia, che vede avvicendarsi Paul King, inventatosi nel 2014 un tono e un umore precisissimi da comfort movie, con Dougal Wilson, al suo debutto dopo una carriera trascorsa tra pubblicità e video musicali. Ma cambia pure il volto di mrs. Brown, la bussola luminosa della famiglia nei precedenti capitoli, che passa da quello di Sally Hawkins a quello di Emily Mortimer. Insomma: tante cose di cui farsi una ragione.

Paddington in Perù: la trama e i temi del film

Paddington in Perù: recensione del film di Dougal Wilson

Peculiarità vincente di Paddington stava nel cucire assieme comicità e giocosa avventura nel contesto britannico tutto bonton ed etichetta. La capitale inglese era un personaggio protagonista a tutti gli effetti.  A Paddington in Perù tocca allora ricominciare, se non daccapo quasi, nel momento in cui all’orsetto (doppiato in originale da Ben Whishaw, in Italia da Francesco Mandelli) arriva una lettera dalla reverenda madre (Olivia Colman) che in Perù gestisce la casa di riposo dove si trova anche Zia Lucy. Vuole rivedere Paddington. Allora lui, adesso cittadino inglese a tutti gli effetti e possessore di passaporto, può finalmente volare fin laggiù con la famiglia adottiva dei Brown. Solo che una volta sul posto scopre che Zia Lucy è scomparsa.

Di mezzo ci sono un mistero, degli indizi, forse una leggenda. C’è anche un Antonio Banderas in ancora un’occasione capitano di vascello, dopo Indiana Jones e il quadrante del destino, uomo che naviga sul fiume assieme a sua figlia Gina (Carla Tous) ed è tormentato dagli spettri dei suoi avi, morti nella ricerca febbrile di un tesoro. Qua il copione scritto da Mark Burton, Jon Foster e James Lamont (King rimane a scrivere il soggetto) prende po’ del sapore di Jungle Cruise – anche se si dice che la storia sia stata influenzata da riferimenti alti come Aguirre, la furia di Dio e Fitzcarraldo di Werner Herzog – con il mito sempreverde di El Dorado e delle sue meraviglie d’oro nascoste chissà dove nel fitto della foresta amazzonica.

E fare male con la base solida di un personaggio come quello di Paddington è difficile. Qualunque cosa faccia e dovunque lo si metta rimarrà in ogni caso adorabile. Ma lo è anche il fare bene sul serio, cosa che a Paddington in Perù riesce tanto, e forse solo, sulla scorta dell’affezione che il film è consapevole di portarsi dietro. Se, come si affermava sopra, Londra era protagonista, il Perù ora è poco più che comparsa. Al di là dello spunto meramente folcloristico e mitologico, non si coglie davvero nulla delle particolarità tradizionali. Quella di questo terzo capitolo è una storia molto ma molto generica, tutta di esplorazioni ed esploratori, pensata a loro misura e a loro conoscenza.

La solita tenerezza, ma con meno sensibilità culturale

Paddington in Perù: recensione del film di Dougal Wilson

Ma questa dovrebbe essere per Paddington anche un’occasione per risalire il pendio delle proprie origini, di chi è, da dove proviene. Di rimando, per la pellicola l’opportunità per legare ancora di più le distanze culturali in virtù di un personaggio (che, ricordiamolo, è un immigrato) capace di far breccia nel cuore di chiunque. Allora non può che amareggiare, persino un po’ deludere, il notare come la cosa che maggiormente manca al film è il ragionare Paddington in relazione alle usanze locali, ai modi e ai rituali di appartenenza, che in fondo sono ciò che eccelleva e che ha reso celebri i primi due film. Sembra tutto in funzione di un’aspettativa dello sguardo (occidentale) in relazione a un luogo esotico che non è indagato se non come un parco giochi, tutto giungla e computer grafica.

Avrebbe una sua ragione aspettarselo da qualsiasi altra operazione commerciale, ma di fronte ad una saga accorta e che ha costruito la sua popolarità sul tema dell’approfondimento etnico e sull’integrazione rammarica notare un approccio simile. Per di più con una certa fiacchezza nel come concepisce l’idea di gruppo-famiglia (Hugh Bonneville, Madeleine Harris, Samuel Joslin), ancora centro tematico delle avventure di Paddington e tuttavia qui utilizzato in maniera pigra negli snodi e nelle risoluzioni.

Poi sia chiaro, Paddington in Perù si porta in valigia un’insita tenerezza che scioglie ogni resistenza e diversi scambi divertenti, in particolare quelli tra la mefistofelica reverenda madre (Colman potrebbe fare un film a parte) e Mrs. Bird (Julie Walters). Ma gli manca un’impronta che lo caratterizzi davvero per ciò che è, e non per ciò è stato prima. Nella patria d’origine era lecito aspettarsi di trovare qualcosa di più.

Paddington in Perù è al cinema dal 20 febbraio con Eagle Pictures.

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