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Ponyboi, la recensione del film di Esteban Arango
Alessio Zuccari

42TFF | Ponyboi, la recensione del film di Esteban Arango

Tags: Esteban Arango, Ponyboi, River Gallo
Ponyboi, la recensione del film di Esteban Arango
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Alessio Zuccari
Tags: Esteban Arango, Ponyboi, River Gallo

River Gallo è protagonista in un’opera che commenta l’identità di genere attraverso le linee direttrici del genere cinematografico.

C’è sempre qualcuno che dice a Ponyboi cosa deve fare, cosa deve pensare, chi deve essere. Il nuovo film diretto da Esteban Arango, che dell* su* protagonista porta il nome, è un reticolato di continue ingerenze esterne, di voci, interessi e pistole che si incrociano in una notte che sembra non finire mai. È un gangster movie Ponyboi? In parte sicuramente. L’opera presentata in Concorso al Torino Film Festival 2024 la scrive e interpreta River Gallo, persona intersessuale, non binaria e trans, che all’interno di questa storia traduce parte della sua esperienza diretta e intima, trasposta in precedenza in un corto omonimo che a sua volta derivava da una pièce teatrale.

Un vissuto che emerge in maniera a tratti biografica nei ricordi del passato dell* protagonista, inserito come lampi all’interno di un film che è indubbiamente di genere. Lo si capisce dalla sinossi. Ponyboi è un* sex worker che lavora di facciata nella lavanderia di Vinny (un Dylan O’Brien come non lo avevate ancora mai visto), pappone viscido e violento sposato con la miglior amica di Ponyboi (Victoria Pedretti). È la sera di San Valentino, ma non c’è turno di riposo. Basta pagare di più. Solo che nel bel mezzo di un rapporto sessuale con un mafiosetto locale, quello ci rimane secco a causa di una partita di droga tagliata male da Vinny. Serve tagliare la corda, in gioco entrano troppe persone non disposte a perdonare.

Una notte che non ha fine

Ponyboi, la recensione del film di Esteban Arango

Per Ponyboi inizia così il girotondo per una New Jersey notturna e inacidita, ostile e allucinata sotto i toni e l’estetica che sembrano a tratti rifarsi quasi ai piani inclinati del cinema dei fratelli Safdie, di Good Time e Uncut Gems. Nel film di Arango non c’è quel pompaggio ininterrotto di adrenalina nelle vene, ma non per questo è meno drogato, meno shakerato tra grottesco, ironia, illusioni, disillusioni in un cocktail micidiale di sangue e lacrime.

Ma si può intuire come il film di Arango – che forse in questo caso sarebbe più corretto dire essere di Gallo – non è solo una pellicola di genere e d’altronde non potrebbe essere altrimenti. La sua caratteristica più interessante sta senza dubbio in come il racconto mescola il collocamento interiore di Ponyboi, sulla definizione di chi sente o non sente di essere da un punto di vista della propria identificazione, alla percezione esteriore che gli altri hanno o pretendono di avere dell* protagonista, spezzando le sue pochissime certezze al passo di come spezza tutte le coordinate narrative tra accelerazioni, decelerazioni, svolte, ellissi.

Ogni volta che c’è un piccolo volo verso il sogno, la culla dell’immaginazione che sfocia poi anche apertamente in un onirico (ci pensa a sottolinearlo la fotografia di Ed Wu) che ha le fattezze di un rassicurante cowboy (Murray Bartlett), qualcosa riscuote Ponyboi con il brusco ritorno allo squallidume dal quale sta tentando di fuggire. Qui sta pure il punto di contatto con il fuoricampo di un rapporto irrisolto con i propri genitori, e in particolare con la figura paterna, rea di aver imposto l’identificazione maschile al personaggio di Gallo. È la parte che fa da ossatura emotiva al film, ma è anche forse la più fragile, un poco pasticciata anche se poi sciolta in un finale che racconta una riconciliazione sperata con il cuore in mano, e quindi approdo dolce in un mare di asprezza.

Raccontare l’identità queer attraverso il cinema di genere

Ponyboi, la recensione del film di Esteban Arango

Centrale nella pellicola è insomma il rapporto di concordanza in cui si iscrivono le direttrici sporche e spastiche del mafia movie e la lacerazione interiore di Ponyboi. Questo non è solo un film di genere in cui sono inseriti personaggi queer, ma è un film che discute una persona queer attraverso il cinema di genere. Con un’attenzione, se vogliamo scolastica, a mettere in chiaro e a parole certe definizioni, certe condizioni. Che non è peccato se la si ragiona come scelta accorta a comunicare la complessità di alcuni temi su cui c’è profonda disinformazione e ignoranza. A volte lo fa meglio, a volte meno meglio, con il portamento sbilenco che in certi frangenti fa dentro e fuori l’intenzionale.

Al netto di ciò, Ponyboi resta però un’esperienza cinematografica fondamentale. Una prima volta per un film prodotto, scritto e interpretato da una persona intersessuale che commenta con un lavoro d’intrattenimento il proprio esserlo. E che punta al cercare una risposta nel mezzo, nella compresenza e non nell’esclusione, abbracciando una terza via che osserva il superamento della formulazione e del pensiero binario in riferimento alle complessità dell’individuo.

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