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Roberta Panetta
The White Lotus 3 recensione: la satira sociale sbarca in Thailandia
Il cinema di Luca Guadagnino è ormai maturo da molti anni. È il regista e autore italiano al momento più importante, non per giudizio necessariamente di qualità, ma fosse solo per il fatto di operare con agilità sul panorama internazionale. Queer, in Concorso al Festival di Venezia 2024, è allora attestato di un preciso momento della carriera di un artista, che dopo progetti legati ad esplorare la capacità di gestione del nuovo divismo americano e della pressione di Hollywood, Bones and All e Challengers, arriva a un film che lui stesso dichiara di inseguire da decenni.
E Queer lo è, il suo lavoro più intimo. Lo era anche per l’autore dal quale libro è tratto. Non c’è Queer senza la sua origine romanzesca, che a sua volta non è senza il suo autore, William Burroughs. Una figura complessa e dannata, esponente di spicco della Beat Generation e della letteratura postmoderna, figura che scende a mescolarsi nelle sue opere e ad alimentarsi in esse, in un atto di generazione (e distruzione) reciproco e senza soluzione di continuità.
Già in questo si trova l’apparente intraducibilità cinematografica di Queer, storia senza storia, pellegrinaggio mortifero del suo protagonista, William Lee, nel Messico degli anni ’40, alter ego di Burroughs. Omosessualità, dipendenze da alcol, droghe e sesso diventano allora pilastri di un cammino senza terreno e senza cielo per un personaggio che vive espatriato dal suo Paese d’origine, gli Stati Uniti, e nella flagellazione del parallelismo perenne di una condizione identitaria prossima all’idea di un crimine, di un’aberrazione.
Nel copione del film di Guadagnino, che il regista ha proposto a Justin Kuritzkes con il quale ha collaborato per Challengers, la cupezza in cui affoga Lee si traduce però nell’aspra desolazione di un dolore umano di solitudine e di incapacità di instaurare un rapporto d’amore stabile. Un film come Queer non si può fare senza un interprete che interiorizzi una frattura simile, in cui confinano il tragico e il patetico. E Daniel Craig è un Lee eccezionale e demolito.
Una persona lacera, che barcolla di bar in bar in una Messico ricreata interamente all’interno degli studi di Cinecittà. Sempre con una leggera barba incolta, sempre con gli stessi vestiti zozzi, sempre con un bicchiere di liquore in mano. Emana l’odore della carcassa in decomposizione. Si conferma una delle più grandi qualità del cinema di Guadagnino: saper far annusare l’aria di un’inquadratura, tra i dettagli minimi dell’amplesso, le tracce dei fluidi e le indicazioni sensoriali che lasciano.
Quando incrocia la strada del giovane e affascinante Allerton (Drew Starkey), si avverte subito l’incapacità di quest’uomo di mezz’età di mediare tra la propria pulsione sessuale e il febbrile bisogno d’empatia. Magnifiche le sovrapposizioni fantasmatiche in cui Lee cerca il calore del gesto, di una carezza da tendere al corpo bellissimo e vivo di Allerton. Il ragazzo declina, si scosta, rimanda. Ma la cupezza del romanzo in Queer si apre a una tristezza dei sensi, la cattiveria e la meschinità dell’indecifrabile Allerton invece a una resistenza istintiva alla possibilità inconfessabile del proprio essere.
Tra i due si alimenta allora questa malattia che Craig, alla sua performance migliore, manifesta in occhi appannati, nelle movenze rassegnate da menestrello, nel portamento dismesso perché di una sofferenza che l’ha fatto abdicare dalla sua patria e dalla sua identità. Queer, che è diviso in due capitoli, si scioglie nel baratro profondissimo della schizofrenia d’amore, della sua ricerca ad ogni costo e ad ogni umiliazione (il contratto della “gentilezza” un paio di volte a settimana), sul quale fondale poggia un incrocio del corporale estremo di Cronenberg (regista che aveva adattato per il cinema Il pasto nudo, sempre di Burroughs) e dell’onirico indecifrabile di Lynch.
Tuttavia, nel concatenamento tra Queer opera filmica e opera letteraria, probabilmente il lavoro di Guadagnino trova il suo limite più grande, il suo ermetismo da non-narrazione che archivia oltretutto nel criptico di una coda finale intensa, ma anche ridondante. Se si conosce l’opera di Burroughs e si conosce il suo vissuto, si sbloccano in Queer ragioni e pulsioni fino a quel momento celate. Ma è sempre una richiesta impropria far risuonare così un film al di fuori di sé.
Si percepisce, in merito a questo, la lunga fase di rimontaggio del film, arrivato ad una versione definitiva di circa due ore e un quarto a partire da una di quasi quattro. Le parti che ne hanno risentito visibilmente di più sono quelle legate al peregrinaggio di Lee nel primo capitolo e al rapporto con Allerton, in cui l’erotismo è presente, tattile, vivido, ma contenuto. Della solitudine impossibile da riempire del protagonista lì si è perso qualcosa, così come della disperazione e della chiave di lettura della pellicola. Ma Queer pulsa lo stesso, a tratti struggente.
Queer sarà al cinema con Lucky Red.