Top News, Festival, Recensioni, Streaming
0
Alessio Zuccari
RoFF19 | Qui non è Hollywood: recensione della serie Disney+
Tags: disney+, pippo mezzapesa, Qui non è Hollywood, RoFF19
Prima di addentrarsi a parlare di Qui non è Hollywood, nuova serie di Disney+ diretta da Pippo Mezzapesa, per capire cosa sia stato, e cosa continua ad essere tutt’oggi, il caso legato alla scomparsa e all’uccisione di Sarah Scazzi resta emblematico un singolo momento. È la diretta TV della trasmissione Chi l’ha visto? della sera del 6 ottobre 2010. Concetta Serrano, la madre dell’adolescente Scazzi di cui non si hanno notizie da più di un mese, si trova seduta nella casa dei parenti Misseri per un collegamento con il programma condotto da Federica Sciarelli. In quegli stessi momenti Michele Misseri, lo «zio Michele», che nel frattempo non si trovava nella sua abitazione ma nei locali della questura di Taranto, confessa di aver ucciso e occultato il cadavere della nipote Sarah.
Arrivano le prime notizie in studio e Sciarelli inizia a renderne partecipe anche Serrano, che apprende così della possibile morte della figlia. Mentre la donna resta in silenzio nello sforzo di elaborare un’informazione di tale portata, la conduttrice le chiede ripetutamente se abbia compreso cosa le stia dicendo e se preferisca a quel punto interrompere la diretta. Al che Serrano risponde con un gelido «È meglio», prima di abbandonare la casa assieme al suo avvocato, anch’egli seduto al tavolo di quello che è diventato uno dei momenti simbolo della ‘TV del dolore’ del nostro Paese.
È necessario partire da qui perché è impossibile scindere il delitto di Avetrana da quella che è stata la narrazione mediatica del delitto di Avetrana. Perché è sconvolgente «quello che può fare alle persone una telecamera», come si dice a un certo punto della serie. Uno show destinato a far discutere, anzi discussissimo a partire già dal suo poster (troppo brutto, troppo finto, ma brutto e finto per intenzione oppure no?), diviso in quattro episodi che prendono il nome dei principali protagonisti di questa orribile vicenda.
Il nome della vittima, Sarah (Federica Pala), e dei tre carnefici che si rimpallano accuse e responsabilità da quattordici anni, Michele (Paolo De Vita), sua figlia Sabrina (Giulia Perulli) e sua moglie Cosima (Valentina Scalera). Resta fuori proprio Concetta (Imma Villa), figura che però aleggia su tutto il corso della serie e che è forse l’indice di un’ambiguità irrisolvibile, la più riuscita per resa e per interpretazione seconda solo alla glaciale Cosima di Scalera.
È infatti incentrato sulla zia l’ultimo episodio, il maggiormente a fuoco dei quattro che percorrono i giorni precedenti alla scomparsa e poi i successivi momenti salienti dell’investigazione. Un episodio che mette in qualche modo a regime la lettura delle puntate che lo precedono e l’eccessiva umoralità dei caratteri dei rispettivi personaggi su cui si focalizzano. Non è una trattazione sempre lucida quella fatta dalla sceneggiatura di Mezzapesa, Antonella Gaeta e Davide Serino attorno alle fissazioni, o agli indici di influenza, che turbano e veicolano il modo di pensare di questi individui di cui la serie assume a turno una sorta di griglia di valori secondo cui filtrare ciò che circonda la storia.
Sembra piuttosto parziale e manchevole, ad esempio, il discorso relativo alla percezione negativa della propria fisicità che Qui non è Hollywood rende centrale per la costruzione dell’insicurezza e delle gelosie di Sabrina nei confronti della cugina. Che lei vede più magra e quindi potenzialmente più attraente agli occhi di quello che fu ribattezzato dai media ‘Ivano il bello’ (Giancarlo Commare), cotta di Sabrina per la quale arrivare, forse, a uccidere. Oppure il personaggio di Misseri, rappresentato in tutta la sua stereotipica scemenza, di manovrato in casa (quanto si argomentò ai tempi attorno al suo essere relegato a dormire in cantina coi gatti) e tormentato dall’idea che la nipote, non battezzata perché figlia di una testimone di Geova, senza un degno funerale sarebbe stata costretta per sempre nel limbo.
Da rivedere, in particolar modo, è la trattazione pietistica del personaggio della quindicenne Sarah, addosso alla quale la serie allestisce un racconto fatto di premonizioni, presagi, onirismi. E poi ancora di stucchevoli allegorie da agnello sacrificale, che a dire il vero contrastano con l’interessante intuizione di rendere l’adolescente non necessariamente simpatica, ma anzi spigolosa e capricciosa come si può confare a quell’età (in questo molto brava Pala).
Qui non è Hollywood, insomma, non esce fuori dalla cornice della finzione che stabilisce (con un cartello prima di ogni puntata) aver applicato per raccontarci, oggi, di questo atroce fattaccio di cronaca. Il punto è che la serie pare avere benissimo in testa quale sia il peccato originale di tutta questa faccenda. Che resta fondamentale, per il caso di Avetrana, inquadrare chi inquadrava (con antesignano della categoria il personaggio di Anna Ferzetti).
Cioè chi ha reso fenomeno riconoscibile e da riconoscere, star del macabro da impomatare e intervistare per un’esclusiva, i molti protagonisti di una storia che dal torbido di una faccenduccia privata, da paesino di provincia, si è intinta prima nel torbido del sangue e poi ancora di più nella torbidezza del morboso dell’homo mediaticus, della sua insaziabile fame di dolore altrui, del gossip cannibale. Allora è dunque anche poco comprensibile il perché si insista così tanto sugli slanci mentali e su quella grammatica dell’enfasi (persino musicale) che non fanno altro che assimilare persino il j’accuse mediatico all’interno di una narrazione qualsiasi, conformata, che non risolve con la forza della ferocia o del grottesco la sua circolarità.
Perché ciò che è stato del lavoro giornalistico, televisivo e dell’informazione tutta nei confronti della tristissima vicenda di Avetrana non è solo nella testimonianza di un fatto, del suo reportage. Ma è stato un caso esemplare di come i media abbiano manifestato la profondità della propria forza pervasiva, capace di arrivare ad influenzare le dinamiche del privato e i processi del pubblico. Di come insomma abbiano saputo prosciugare la morale (il privato) e spostare i confini dell’etica (il pubblico) al fine non di valorizzare la missione professionale, ma piuttosto di arricchire i palinsesti.
Rimane incerto il collocamento di un progetto come Qui non è Hollywood, che avrebbe tra le mani la possibilità di argomentare pure il perché non vogliamo vedere traslato nella finzione quel morboso di cui siamo stati partecipi (fresco, recente), a cui però non rinunciamo affatto nelle altre forme in cui lo declina l’epoca del true crime che stiamo vivendo, tra documentari e podcast di ogni tipo. Una possibilità che rimane costeggiata, assieme a tutte le altre.
Qui non è Hollywood è in esclusiva su Disney+ con i suoi quattro episodi dal 30 ottobre.