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Alessio Zuccari
Raffa: recensione della docu-serie Disney+ su Raffaella Carrà
Tags: daniele luchetti, raffa, raffaella carrà
Partiamo dal titolo, pietra angolare di tutto il discorso che poi lo segue: Raffa. Quindi, Raffaella. Un nome che è punto di congiunzione tra altri due, Pelloni e Carrà. Il primo probabilmente dice poco a pochissimi. Il secondo, invece, affetta in due il mondo dell’intrattenimento italiano e non solo. Raffaella Pelloni è enigma insondabile perché dall’esistenza quasi celata. Raffaella Carrà è la showgirl più importante e significativa che l’Italia abbia mai avuto, prima grande figura pop capace di travalicare i confini nazionali e di fare terra di conquista prima l’Europa e poi il resto del mondo.
Allora, in Raffaella, convivono due persone opposte e complementari. L’una timida, umile, modesta, l’altra esuberante, infaticabile, estroso artificio offerto in dono al pubblico e che alla prima fa da schermo protettivo. Sul tentativo di sondare questa dualità nasce appunto Raffa a un anno e mezzo dalla scomparsa dell’artista emiliana, docu-serie in tre episodi disponibile ora in streaming su Disney+ dopo il passaggio al cinema in un’unica soluzione come film evento. Scritta da Cristiana Farina, con la partecipazione di Carlo Altinier, Barbara Boncompagni, Salvatore Coppolino e Salvo Guercio, e diretta da Daniele Luchetti, Raffa si impone una domanda: nell’incrocio tra questi due volti, il Pelloni e il Carrà, si può risolvere il trascinante mistero di un successo così esplosivo e trasversale?
Perché un mistero di certo c’è, ma non è detto che la serie riesca a scioglierlo. Non per negligenza della serie: il materiale d’archivio è denso e catalogato con grande agilità cronologica, dall’infanzia fino alla carriera più avanzata. Qualcosa, certo, resta fuori dal conteggio. Come il Festival di Sanremo del 2001 o anche il ritorno che la showgirl poi fa a The Voice. Non è detto che riesca a scioglierlo perché nella piega di vita in cui la professionista tende la mano all’intimità del privato c’è un piccolo buco nero, reso tale dalla stessa Raffaella che lo ha reso fessura nella quale è quasi impossibile scrutare.
Pelloni e Carrà sono due personalità accuratamente distinte, eppure mai separate. Nel suo ricco e ipnotico lavoro di ricostruzione della donna e della lavoratrice, Raffa prova a suggerire alcune coordinate per leggere le debolezze e i punti di forza. Di fondo si posa il macigno di aver subito una genitorialità complessa, con la pressione di un materno non conciliante e soprattutto la rumorosa mancanza di una figura paterna.
Quest’ultima, in particolare, nei racconti inediti fatti da parenti, conoscenti e colleghi (da Marco Bellocchio a Fiorello, passando per Tiziano Ferro ed Emanuele Crialese) emerge come un’incrinatura malinconica che ha sempre condizionato Pelloni, con gelosia e ammissione di possessività, nelle relazioni personali e nei rapporti umani. Prima con Gianni Boncompagni, primo importante partner, nonché autore e produttore dei suoi testi durante la gloriosa cavalcata degli anni Settanta, ma poi anche negli incontri-scontri con un collega storico come Enzo Paolo Turchi e infine con il compagno di lungo corso Sergio Japino.
Ma se Raffa ricostruisce il privato partendo da ritagli e racconti indiretti – confermando allora la coerenza e l’aura misterica di una Pelloni inafferrabile –, è sul lato pubblico che si fa piccolo compendio utile a cartografare la portata di un fenomeno globale. I primi tentativi di sfondare nella danza e come attrice, l’improvvisa occasione hollywoodiana con Il colonnello Von Ryan assieme a Frank Sinatra, il ritorno in Italia e l’arrivo di un successo non preventivato da nessuno. Il Tuca Tuca in prima serata TV, i vestiti osé, il sexy e l’erotico che si mescolano in una miscela esplosiva osteggiata da una bavosa dirigenza RAI e allo stesso tempo acclamata dal pubblico.
E quindi, ancora, una Carrà che è stacanovista e corpo dedito in tutto e per tutto alla carriera tra qualche ombra e contraddizione, che si fa bene d’esportazione con un vigore femminile che sconquassa i dogmi e si rivitalizza nell’indipendenza dal maschile. A valanga Raffa racconta l’arrivo nella Spagna franchista del 1975, i tour mondiali e la carrà-mania del Sud America, dove forse per la prima volta Raffaella si spaventa del proprio successo che l’ha resa icona e idolo. Ci sono poi anche la forte vicinanza alla comunità queer e LGBTQIA+, gli anni di piombo e i programmi in day-time, in quello che è un rotocalco puntuale e non scevro di emozione su uno dei personaggi più incisivi che l’Italia abbia mai conosciuto.
La sensazione che la docu-serie restituisce è che insomma se ne sarebbe potuto avere di più, molto di più. Che tre ore per racchiudere la complessità di un caleidoscopio come quello di Pelloni-Carrà, soggetto-oggetto rifratto e rifrangente, siano quasi ridicolosamente poche, eppure unica formula sensata. Se ne gode e se ne gioisce, lasciandosi trascinare dal cantico lodevole ma mai agiografico di Raffa, diapositiva di una grandissima performer che ha plasmato sotto le proprie mani gli umori di uno spicchio di mondo.
Raffa è su Disney+ dal 27 dicembre.