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rapito recensione film marco bellocchio
Alessio Zuccari

Rapito, la recensione del nuovo film di Marco Bellocchio

Tags: festival di cannes, marco bellocchio, rapito
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Rapito, la recensione del nuovo film di Marco Bellocchio

Tags: festival di cannes, marco bellocchio, rapito

Il caso Edgardo Mortara è uno degli episodi più oscuri della storia della Chiesa cattolica. Marco Bellocchio lo racconta in un film che dà seguito al suo ragionamento sul potere e la fede

A un certo punto di Rapito, l’ultimo film di Marco Bellocchio presentato in concorso al 76esimo Festival di Cannes, un prelato dice al piccolo Edgardo Mortara: «Dio sa tutto, anche i nostri pensieri». Il bambino sta per incontrare la madre Marianna (Barbara Ronchi) per la prima volta da quando è stato trascinato via di casa. È un monito inibitorio che suona tanto simile a un celebre slogan di Don Camillo, personaggio nato dalla penna dell’umorista Giovannino Guareschi. Recitava così: «Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no!». A utilizzarlo per smuovere le coscienze dei cattolici tentati dal Fronte Popolare durante le complicate elezioni del 1948 fu una giovane Democrazia Cristiana.

Proprio quella DC che Bellocchio aveva finito di affettare qualche mese fa nell’opera magna di questa sua seconda giovinezza creativa, Esterno notte. Lì si indagavano e rivoltavano i peccati materiali e di coscienza del caso Moro, ucciso per mano delle Brigate Rosse con l’aperta accusa di corresponsabilità che Bellocchio affigge però in petto ai suoi compagni di partito, rei di averlo in qualche modo ammazzato perché inerti di fronte alla possibilità di salvarlo. Una serie quella di Esterno notte – perché sì, checché se ne dica è una serie – che si è scagliata rabbiosa in prima serata, spietata nel ritrarre i volti ora algidi dall’indifferenza, ora deformati dalla paranoia di politici con un nome, un cognome e verso cui è puntato un indice a scena aperta.

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Photo Credits: 01 Distribution

Un fattaccio che ha fatto il giro del mondo

Ecco, si parte da qui perché Rapito fa due cose: continuare a discutere la presenza ambigua della formazione cattolica nella vita di Bellocchio (che scrive il film assieme a Susanna Nicchiarelli, reduce dal recente Chiara) e sviscerare le storture del potere temporale di chi porta il crocifisso appeso al collo. E il caso Edgardo Mortara giocò una parte proprio nella fine di questi interessi temporali da parte della Chiesa cattolica.

È il 1858. Il 1860 si avvicina ad ampie falcate, l’unità d’Italia è dietro l’angolo. È l’anno in cui Edgardo (Enea Sala e poi Leonardo Maltese), sestogenito di una famiglia ebraica, viene strappato dalla sua casa di Bologna, all’epoca sotto il controllo dello Stato pontificio. Stando a certi atti secretati, pare sia stato battezzato all’insaputa dei suoi genitori (il padre è Fausto Russo Alessi). Questo significa che non può essere cresciuto da una famiglia di ebrei e quindi su ordine stesso di Papa Pio IX (Paolo Pierobon) viene trasferito a Roma per ricevere un’educazione cattolica. Il fatto ebbe grande eco mediatica e girò sui giornali di mezzo mondo, dall’Europa fino al Nord America. Alle spinte esterne che chiedono una risoluzione ragionevole della questione, il papa risponde: «non possum». Non posso, perché il volere è quello di Dio e anche lui che è vicario di Cristo in Terra non può fare nulla.

Allora qui Rapito questiona quell’inibizione dogmatica di cui si diceva all’inizio, svela l’odiosa contraddizione di un atto di imposizione temporale – nel senso anche di un tempo rubato per sempre, privato, cancellato, ovvero quello dell’essere figlio – a partire dal segreto insondabile, e quindi incontestabile, della fede. I cattolici accusano gli ebrei di nascondersi dietro la cortina di fumo delle loro ritualità pagane, eppure il film è agli atti, ai gesti, alle forzature della religione di Roma che assegna la costruzione di un timore che è figurativo, anzi, meglio ancora puramente dimostrativo.

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Photo Credits: 01 Distribution

Una precisa idea di cinema

Bellocchio è interessato allo sradicare la morale del senso di colpa, a cui chiama in maniera così forte il simbolo stesso del cristianesimo, la croce con sopra il Cristo morente, che in una sequenza onirica il piccolo Edgardo decide di schiodare e far andare via.  È un cinema, quello di Rapito, che continua a mettere a processo l’ombra lunga dell’istituzione religiosa (e quindi di un potere costituito), come avviene di fatto nella coda del film, forse la meno incisiva e più programmatica, eccezion fatta per un paio di feroci frangenti («Buttiamolo nel Tevere ‘sto porco!»).

Lo fa con l’infiammabilità di un regista che il suo rapporto con la fede lo ha sempre messo nei denti stretti dei suoi personaggi, che lo ha contestato, rivoltato e persino bestemmiato. Questo perché riconosce nelle dita della Chiesa una fede interessata, forza motrice di una lunga responsabilità storica, come quella nei confronti del peccato marchiante degli ebrei, qui ben evidente. Soprattutto, poi, di uno spirito che alle cose materiali ha sempre dato una carezza, anche a costo di turarsi il naso – in Rapito si parla anche del malcontento del banchiere Rotschild, custode delle disastrate casse papali.

Chissà che ne avrebbe fatto Steven Spielberg, viene da chiedersi, per anni interessato alla rappresentazione della vicenda Mortara. Di certo Bellocchio lo ha reso tassello coerente con il suo percorso artistico anche recente, altra sferzata di un cinema mai nascosto e sempre più manifesto nel lavare panni sporchi, sporchissimi nella piazza più ampia possibile.

Guarda il trailer di Rapito:

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