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Alessio Zuccari
September 5: recensione del film di Tim Fehlbaum
Tags: John Magaro, Peter Sarsgaard, September 5, Tim Fehlbaum
La didascalia nel prologo del film Munich recita: “Nel 1972 il mondo è testimone dell’assassinio di 11 atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco, questa è la storia di quanto accadde dopo”. Quello di Steven Spielberg è il racconto più celebre dell’attentato terroristico del 5 settembre 1972, in cui un commando palestinese della fazione Settembre nero fece irruzione negli alloggi israeliani del villaggio olimpico di Monaco, uccidendo due israeliani subito e prendendone in ostaggio nove. Ma Munich, appunto, romanza la caccia all’uomo del dopo. September 5 di Tim Fehlbaum fa il resoconto del prima di questa storia. Anzi, del mentre: perché quelli di Monaco furono i primi atti terroristici di sempre ad essere riportati in diretta televisiva.
Il film, presentato in anteprima al Festival di Venezia 2024 e la cui sceneggiatura scritta da Fehlbaum, Moritz Binder e Alex David è candidata alla Miglior sceneggiatura originale agli Oscar 2025, è fatto tutto di cavi, bobine, tasti. E poi ancora di camere, foto, tesserini, stratagemmi analogici e concreti. Di cose concrete che il team di ABC Sports, l’emittente statunitense con i diritti di trasmissione delle Olimpiadi, tocca, spinge, sposta, usa.
Quando i registi e i tecnici della sala controllo sentono i primi colpo d’arma da fuoco, si adoperano all’istante per iniziare a riportare ciò che sta accadendo. Geoffrey Mason (Johh Magaro), capo della sala controllo, dirige le danze tra cinismo e inquadrature. Il presidente della divisione sport, Roone Arledge (Peter Sarsgaard), lotta al telefono per tenere ABC Sports in diretta. September 5 si districa infatti tra due cose.
Da una parte si snoda attraverso il mostrare la lavorazione tecnica, la manifattura, il processo di conversione dal concreto degli strumenti all’immateriale dell’immagine, con cui argomenta la definitiva traslazione dal campo del fatto (che è “tangibile”, è crudo, esiste da sé) al campo della notizia (che è scelta, messa in opinione, impaginata). Che però, allo stesso tempo, per la prima volta nella storia dei media racconta in diretta un atto terroristico, il suo avvenire, il suo evolvere. Come, trent’anni dopo, sarebbe stato raccontato in diretta un altro attentato ai simboli d’occidente, quello alle Torri gemelle di New York nel 2001 – alle quali già Avner Kaufmann, il personaggio interpretato da Eric Bana, guardava con una vertigine retro-profetica nel finale di Munich.
E quindi apre a tutta una serie di nuove variabili, di incertezze e indeterminatezze. Dall’influenza che la diretta delle operazioni di polizia della Germania Ovest (molto contestate dal film) ha sull’evoluzione degli avvenimenti del sequestro, in un passaggio in cui i media entrano di fatto nel campo del reale (e dell’inquadratura) perché anche i terroristi stanno guardando la diretta; alle discussioni su se sia corretto l’utilizzo stesso del termine ‘terroristi’, oppure quanti gradi di verifica dell’informazione occorre attendere per lanciare un aggiornamento sugli eventi.
Perché l’altro fronte su cui lavora September 5 è la questione della lotta commerciale, dell’interesse economico che prende a spallate l’etica e la correttezza deontologica. L’ABC si batte per mantenere lo spazio della trasmissione che tenta di soffiargli la CBS, l’altro grande emittente statunitense. E a sua volta la divisione ABC Sports prova a tenersi stretta l’esclusiva dello scoop che prova a portarle via la casa madre.
In mezzo agli indici d’ascolto, alla capitalizzazione della notizia a discapito di cosa potere mostrare e cosa no, cosa è giusto e cosa no, il film di Fehlbaum ne esce comunque fuori in maniera un po’ meccanica. Snocciola i suoi conflitti e dilemmi con un atteggiamento tutto sommato piano, con un tono troppo spesso sotto il livello d’urgenza, precarietà e rischio ai quali una pellicola simile chiama di natura.
Esempio lampante è la falsa risoluzione prima della risoluzione vera e propria, frangente in cui il pathos dovrebbe essere caricato al massimo, rilasciato e poi sprofondato nel contraccolpo di un esito opposto rispetto a quanto tutti pensavano. Si può obiettare: inutile farlo su di un evento storico così noto, dove la conoscenza individuale colma il depistaggio drammaturgico. In parte è vero, ma sta anche alla finezza della drammaturgia scuotere la certezza della conoscenza ai fini del dubbio narrativo. Cosa che September 5 fa poco, più per mancanza sua che volontà, allestendo tuttavia un prontuario puntuale, e un po’ scolastico, sull’incidenza del ruolo dell’informazione nei tempi dello scambio immediato di informazioni.
September 5 è al cinema dal 13 febbraio con Eagle Pictures.