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Alessio Zuccari
Negli ultimi anni l’animazione sta vivendo un periodo di florido sviluppo per le forme e le tecniche del racconto. È sufficiente guardare ai risultati raggiunti dalla Sony con Spider-Man – Un nuovo universo, dalla DreamWorks con Il gatto con gli stivali 2 – L’ultimo desiderio, oppure in ambito seriale dalla meravigliosa Arcane di Riot Games e Fortiche Production. Per quanto abbiano segnato a loro volta un intero immaginario, sembrano quindi appartenere a un’altra epoca i classici racconti delle principesse Disney. Eppure su Netflix ecco arrivare Spellbound – L’incantesimo, che non è Disney, ma da quella dimensione principesco-adolescenziale trae in tutto e per tutto i confini della sua storia.
Il film, diretto dalla veterana Vicky Jenson (ha codiretto Shrek e Shark Tale, per intenderci), è stata la prima opera annunciata da una neonata Skydance Animation (dopo la fusione con gli spagnoli Ilion Animation Studios) nel 2017. Poi le cose sono andate per le lunghe, i diritti transitati tra le mani di Paramount Pictures prima e AppleTV+ dopo, con di mezzo pure una pandemia. Forse già in queste lunghissime vicissitudini si possono andare a rintracciare i semi di stanca di un film che ha attraversato quasi un decennio produttivo e sembra arrivare dritto da un passato già digerito.
Il tema, a suo modo, è attualissimo. Ellian (Rachel Zegler) è la quattordicenne principessa del regno di Lumbria, un luogo dalle architetture vagamente arabeggianti e popolato da persone con le orecchie a punta. Come si confà alla sua età, Ellian vorrebbe solo vivere la sua vita tra il disordine della sua cameretta e i pomeriggi con gli amici. Solo che sulle spalle si ritrova a dover gestire una situazione familiare alquanto particolare. I suoi due genitori, il re e la regina, sono stati tramutati per colpa di un incantesimo sconosciuto in due enormi mostri (Javier Bardem e Nicole Kidman). Non sono particolarmente aggressivi, ma hanno (in un primo momento) perso la parola e la ragione. Per sfuggire dalle responsabilità dei consiglieri del reame che vorrebbero incoronarla sovrana prima del tempo, e per trovare una cura alla condizione dei due genitori, Ellian si incammina con le due bestie e il suo animale da compagnia al seguito di un gingillo magico che potrebbe essere soluzione di tutti i problemi.
Strada facendo, si scopre poi che Spellbound – L’incantesimo pone la condizione della regina Ellsmere e re Solon a metafora di una situazione familiare complessa, fatta di incomprensioni, litigi e di un clima matrimoniale non più sano per la figlia. È certo interessante come l’opera, scritta su sceneggiatura di Lauren Hynerk, Elizabeth Martin e Julia Miranda, osservi e discuta la gioventù d’oggi, sicuramente più alle prese con genitori separati o divorziati di quanto non lo fosse quella di trent’anni fa. Ma nel farlo il film, che guarda alle tendenze Disney anche nelle sue distorsioni, scade in quella sostanziale mancanza di un villain o di una reale minaccia durante il corso dell’avventura, peccato imputato a molte opere della casa di Topolino negli ultimi anni. Di fatto minando l’efficacia di quel valore di crescita della protagonista e del suo arco di effettiva formazione.
Spellbound – L’incantesimo è interamente ripiegato su se stesso e sull’elaborazione progressiva del difficile momento che Ellian si è ritrovata a vivere. Cosa che comporta una costante pianezza della narrazione, viziata quindi da un tono privo di reali guizzi nell’umorismo, piuttosto elementare, e nella parte musicata, composta da Alan Menken ma che suona come un ritornello già sentito e superato. E tornando alle osservazioni in apertura dell’articolo, a tutto ciò si accoda un’animazione che pare viaggiare in controtendenza alla vertiginosa sperimentazione che i titoli citati ci hanno offerto e continuano a offrirci.
Spellbound – L’incantesimo visivamente è povero e spoglio, pensato con un’animazione tridimensionale incapace di distinguersi per ricercatezza dei modelli, decisioni cromatiche e afflitto da una direzione artistica generale rimestata in un noto già passato e oltrepassato. Un’ulteriore evidenza che lo rende davvero un’opera che non si scrolla di dosso la sensazione di essere stata tirata fuori dal cassetto tardiva e sonnecchiante, lanciata in pasto a un catalogo dove i suoi simili raccontano già tutta un’altra storia per innovazione e intrattenimento.