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Alessio Zuccari
FolleMente: recensione della nuova commedia di Paolo Genovese
La parte iniziale e la parte finale di Tendaberry sono magnifici. La regista Haley Elizabeth Anderson, qui al suo debutto presentato in Concorso al Torino Film Festival 2024, sta attaccata alla sua protagonista Kota (Kota Johan). Che è una millennial, che non mantiene contatti con la sua famiglia, che campa alla giornata lavorando come commessa e tirando su qualche mancia extra cantando in metro. Ecco, coltiva il sogno di voler fare la cantante, ma non è che ci creda poi così tanto mentre percorre una Coney Island guardata e inquadrata nelle persone che la abitano e respirano.
Kota non ha coordinate. Fino a quando un giorno proprio in metro incrocia Yuri (Yuri Pleskun), ragazzo ucraino con cui inizia a frequentarsi. È la prima porzione del film, che Anderson scrive pure, ed è quella più romantica, quella più trascinante dell’euforia incollocabile dell’infatuazione e della passione. Perlomeno fino a quando un giorno Yuri deve ripartire per Kiev per accudire il padre. Per un poco i due tentano di mantenere il rapporto a distanza, con Tendaberry che si innesta dei linguaggi video delle loro chiamate sullo smartphone, degli inserti TG, dei momenti dei due insieme catturati con una vecchia videocamera. Ma poi Yuri non risponde più alle chiamate, sparisce. In Ucraina arriva la guerra.
È l’irrompere in maniera cruda della contemporaneità, ché nel flusso del deragliamento generazionale squarcia un lembo e si inserisce localizzando un qui e ora che è da brividi. Questa è infatti una storia che inizia con le mascherine che coprono i volti, e strada facendo poi le abbandona quasi del tutto. È uno dei tratti più interessanti e ipnotici di Tendaberry, il lavorare sul concetto di passaggio degli eventi attraverso i mutamenti del mondo e poi i mutamenti stessi della protagonista.
Autunno, inverno, primavera, estate e infine ancora autunno. Il corso di un anno e oltre che pare descrivere invece il corso di una vita intera, con il suo passato (che sta “nascosto, di lato, dimenticato”) e con il suo futuro, persino quello immaginato in uno degli slanci impossibili del meraviglioso finale del film. E Kota appunto cambia moltissimo. Lo fa fisicamente (affronta addirittura una gravidanza, il lascito doloroso della separazione forzata da Yuri) ed esteticamente, con il cambio di vestiario al passare delle diverse stagioni e con anche un progressivo cambio di look mentre procede nella riscoperta delle proprie radici culturali dominicane. Mentre re-impara, insomma, a riappartenersi.
Nel seguirla la regista utilizza una macchina a mano esasperata, sconquassata a destra e a sinistra durante le corse frenetiche in cui si lancia Dakota – questo il suo nome per intero – in giornate prive di reali posizionamenti temporali, non collocate ma solo calate. Uno sguardo che resta su di lei (che è anche una narratrice consapevole; forse mentre si ripensa?), fisso, stretto, quasi a proteggerla e a dichiararsi presente lì, adesso e in qualsiasi altro momento occorra.
Un peccato allora che Tendaberry duri davvero troppo (sfiora le due ore), e nel mezzo di questo inizio e di questo finale straordinari fatichi a sobbarcarsi il peregrinare di Kota nelle difficoltà di un vissuto che non pare volerle concedere tregua. Il suo è un disperatissimo vortice che cola a picco nel vuoto, che lo script di Anderson sottolinea però con un’insistenza che avrebbe senza dubbio giovato nel trovare una minore dilatazione.
Questo qui è un esordio vulcanico, nonostante se lo si osserva nel complesso coglie appieno anche da certi sapori (estetici, di forma) del cinema ‘indipendente’ statunitense – non è un caso che sia passato pure al Sundance Film Festival. E nonostante accusi una sezione centrale meno a fuoco, meno incandescente rispetto agli estremi che la contengono, Tendaberry stupisce per la profondità d’impatto emotivo dei dolori che tenta di raccontare, che non abbandonano la testa e non abbandonano il petto.