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Alessio Zuccari
FolleMente: recensione della nuova commedia di Paolo Genovese
Dopo più di quarant’anni di una carriera premiatissima e diventata oggetto di culto per più generazioni, Pedro Almodóvar si propone con The Room Next Door la sfida della lingua inglese. Una scelta a lungo rimandata a causa della sua nota insicurezza a lavorare con altro che non fosse lo spagnolo, perlomeno nell’ambito dei lungometraggi. Da apripista hanno fatto i terreni di prova del corto The Human Voice e quindi lo spot Strange Way of Life, ma è solo con l’arrivo del film presentato in Concorso al Festival di Venezia 2024 che il leggendario regista ispanico, classe 1949, mette infine un sigillo.
Ad accompagnarlo, e sostenerlo, due interpreti robuste e intelligenti come Julianne Moore e Tilda Swinton (lei già in The Human Voice), che prendono i ruoli di due vecchie amiche che si ritrovano dopo diverso tempo in un momento di critica difficoltà. Ingrid (Moore) è una scrittrice affermata e ossessionata dalla paura della morte; il suo ultimo libro parla proprio di questo. Viene a conoscenza che Martha (Swinton) è malata di un cancro in fase terminale. Allora la va a trovare e le due riprendono le fila di un rapporto che si snocciola torrenziale nella sceneggiatura che parte dal romanzo What Are You Going Through di Sigrid Nunez.
Almodóvar da qui ripercorre l’esperienza di vita (i flashback del passato di Martha, tra la carriera di reporter di guerra e un ruolo di madre deposto) fino ad arrivare all’idea di una morte scelta attraverso il ricorso all’eutanasia. Ma si accompagna a una richiesta terrificante: Martha vorrebbe che Ingrid si trasferisse con lei fino al giorno in cui deciderà di ricorrere a quella pillola letale che ha acquistato sul dark web.
The Room Next Door si compone di vignette e quadri in composizione estetica come al solito impeccabile, tarata sulle pulsioni cromatiche nette e sfidanti che da sempre accompagnano il cinema del regista – i verdi, i rossi, i blu e conseguenti derivazioni. All’interno di queste si fa spazio il melò tanto caro al cinema di Almodóvar, infarcito delle venature di un umorismo che in questa occasione gioca però più dalla parte della soap di prestigio, esplosa quando si infrange nell’avvertimento apocalittico e catastrofista dell’amico disilluso Damien (John Turturro) e nel confronto, fiacco, con il bigottismo (Alessandro Nivola).
The Room Next Door sconta, non poco, un’eccessiva, implacabile verbosità che soprattutto nella prima sezione del film non pare essere davvero squillante (c’entrerà il lost in translation?), né tantomeno capace di uscire dal proprio sforzo espositivo. L’autore intavola attraverso i suoi immancabili riferimenti popolari – da Viaggio in Italia a Buster Keaton – un percorso a due, prima umano poi etico, che conduca al buon addio per Martha e all’esorcismo del terrore vissuto da Ingrid.
Ma il semplice del discorso giusto e sano scivola presto nel semplicistico, con un cinema tutto in tiro che tiene in scacco il dramma all’interno di un’emozione da ricreare, da manifestare nell’impalcatura del confronto ininterrotto tra le due protagoniste. Qui dentro, nelle loro confessioni e nelle loro impressioni, non ci sono però grandi verità da disvelare. L’ultimo terzo è indubbiamente il migliore. Si apre una traccia di mistero personale, umano, su quando sia davvero avvenuto cosa, e poi si schiude un finale in cui Almodóvar declama il compiersi del passaggio della soglia con un eterno ritorno e una neve che cade dolce. C’è, però, la possibilità che sia troppo tardi.
The Room Next Door sarà al cinema con Warner Bros.