
Top News
Roberta Panetta
The White Lotus 3 recensione: la satira sociale sbarca in Thailandia
Presentato in anteprima italiana alla Festa del Cinema di Roma 2024 l’implacabile body horror con protagoniste Demi Moore e Margaret Qualley.
A che velocità brucia una starlet? Se lo chiedeva e ne traeva una media poco più che ventenne Kenneth Anger nel suo leggendario libro Hollywood Babylonia, spietato e toccante j’accuse al mondo del cinema americano degli anni Venti e Trenta. Che fu un tunnel di perdizione e dolori per molte e molti che credettero nello splendore del sogno in celluloide, raccontato in volo pindarico dal Babylon di Damien Chazelle. E in che condizioni resta una stella che sopravvive? Se lo chiede invece Coralie Fargeat a partire dalla geniale sequenza di apertura nell’instant cult The Substance, film che dalla patinatura e dall’ipocrisia del mondo dello showbiz trae la carica propulsiva per assaltare i dogmi delle aspettative, della performance e del sessismo.
Attenzione però, se vi aspettate chiavi di lettura che sgomitano o piani di scandagliamento metaforico non avete proprio idea di cosa vi attende. Fargeat, che scrive e dirige e con in tasca il premio alla Miglior sceneggiatura del Festival di Cannes 2024 (lì ci vedono lungo: un body horror ancora in palmares dopo Titane di Julia Ducournau), tiene stretta negli angoli dell’inquadratura una satira sempre manifesta, sempre carica, sempre implacabile fatta di sangue, carne, liquidi ed escrescenze. Non c’è più tempo per andare per il sottile. Quello che c’è da dire sta tutto lì, in bella vista: non ci si può nascondere dietro l’elucubrazione interpretativa.
E una presa di petto simile non è sinonimo di sterilità. Chi vuole, troverà tutti i riferimenti al genere e ai classici dai quali The Substance assimila. Cronenberg, certo, ma pure Eva contro Eva. Fargeat però padroneggia il linguaggio pop con una tale agilità da arrivare ad assorbire e rifunzionalizzare tutti questi riferimenti (e perché no, anche il loro male gaze, il loro sguardo maschile) per poi affettarli con una regia che aggredisce e aggredisce ancora, impeccabile, di un nitore al quale non si scampa – come tra l’altro aveva già ampiamente dimostrato di saper fare in Revenge.
Anche questa rimane in fondo una storia di triste vendetta. Nel giorno del suo cinquantesimo compleanno, l’ex star Elizabeth Sparkle (Demi Moore) viene licenziata dal programma TV di aerobica che ha condotto per anni e che rappresentava l’ultima connessione con lo sfavillio delle luci della ribalta. Lo squallido produttore Harvey (Dennis Quaid), uomo schifoso del Novecento che non lava le mani dopo essere andato al bagno e che Fargeat disprezza profondamente (al punto da donargli una ripresa in cui la bocca arricciata sembra un deretano), non ha per lei troppe cerimonie o ringraziamenti: c’è bisogno di un qualcuno che sia più giovane, più attraente, più performante.
Nella rapida discesa nel tunnel di una disperazione nera che Fargeat descrive con il distacco desolante di ambienti dai colori accesi e accecanti, abitati da forme estetiche sterili e osservati con anestetizzanti rigori geometrici, Elizabeth si imbatte in un’ambigua proposta. Viene contattata da una società misteriosa che sembra poterle offrire la possibilità di ottenere una ‘versione migliore di se stessa’. Tutto ciò che occorre fare è recuperare un kit di aghi e siringhe da somministrarsi e di cui seguire con cura le istruzioni. Senza svelare troppo nei dettagli, da questa sintesi ‘migliore’, e quindi dal corpo stesso di Elizabeth, nasce Sue (Margaret Qualley). Che è proprio ciò che cerca Harvey: giovane, attraente, performante.
Ma Sue è ancora Elizabeth? Elizabeth è Sue? È la domanda kafkiana sopra la quale The Substance alimenta l’invettiva nei confronti dello squallidume e della tossicità di uno specifico ambiente come quello dello spettacolo, per poi aprirsi a una più generale spada tratta verso la società filtrata dagli schermi (e quindi sì, dalle versioni di noi stessi che scegliamo migliori) in cui viviamo. Può esserci equilibrio e parità tra queste due, che forse sono una sola?
Fargeat vuole insomma estremizzare quanto la spinta di questa richiesta dell’essere impeccabili sia talmente interiorizzata e ingente da far mettere Sue contro se stessa, contro la sua ‘matrice’ carnale di cui arriva in un certo senso a consumare. Pure qua non è niente di particolarmente sottinteso, dove l’assurdità acida e dichiarata del film ne sostanzia la struttura narrativa. Le domande che uno potrebbe porsi sono da assegnare al massimo a chi e cosa governi il rifornimento della sostanza, quali interessi ne tragga. Il macabro teatro della società e delle sue aberrazioni non sono altro che il definitivo campo di profitto per gli interessi economici che ci circondano? Il governo indiretto dell’individuo e del suo corpo sono l’ultima frontiera della mercificazione?
Nel mezzo di tutto ciò emerge poi la grande disposizione al ruolo di una stratosferica Moore (così com’è incredibile anche Qualley), prestata a ragionamenti, tra scene di aperto nudo e commovente commiserazione fisica, su quale sia la concezione dell’aspetto femminile di una star nel mondo dell’intrattenimento e che specchiano Elizabeth su Demi e Demi su Elizabeth. Un’operazione di esorcismo del corpo attoriale che trova grandi affinità in un’interpretazione meno drastica, ma non per questo meno significativa, come quella di Nicole Kidman in Babygirl, con la quale l’attrice ha vinto la Coppa Volpi al Festival di Venezia 2024.
La lucidità e la ferocia di The Substance lo rendono allora uno dei film dell’anno. Fargeat conferma di essere una delle autrici contemporanee più capaci di pensare il cinema come atto politico a partire dalle sue coordinate più glamour e accessibili, affettando le ipocrisie sbattendone il loro frutto mostruoso in primo piano.
The Substance è al cinema dal 30 ottobre con I Wonder Pictures.