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Alessio Zuccari
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C’è un momento verso la fine di The Summer Book che è sintesi di tutto ciò che il film di Charlie McDowell vuole essere. Lo si coglie a partire dallo sguardo di Anders Danielsen Lie, che interpreta il ruolo di un padre che in questa storia è presente ma rimane per lo più in secondo piano, non è lui il protagonista. Imperversa una violenta tempesta e quest’uomo tira a riva una barca imprecando, prima di cadere in ginocchio. È un istante che la camera da presa di McDowell afferra, leggermente dall’alto, standogli attaccato al volto assediato dalla pioggia, prima che il montaggio stacchi e porti il padre nella casupola degli ex guardiani del faro dove si sono riparate l’anziana madre (Glenn Close) e la figlia di nove anni Sophia (l’esordiente Emily Matthews).
Una sequenza in cui c’è lo scioglimento emotivo tra questa figura, che fino a quel momento si è sobbarcata il sommerso di un dolore mai sbattuto in primo piano (Danielsen Lie in questo è bravissimo, come già dimostrato in particolare con il cinema di Joachim Trier), e le altre due, che si riaccolgono alla luce calda di candele mentre fuori continua a sferzare il freddo.
È utile partire da qui perché The Summer Book, presentato in anteprima come Fuori Concorso al Torino Film Festival 2024, è interamente pensato per porsi in un dialogo ininterrotto tra il vissuto interiore di questi tre personaggi e la percezione sensoriale che provano nel contatto con l’altra grande protagonista dell’opera, una piccola isola nel golfo finlandese.
Il film, scritto da Robert Jones a partire dall’omonimo romanzo best seller di Tove Jansson, mette al centro il rapporto tra questa nonna e questa nipote, ritrovatesi a trascorrere un’estate assieme dopo che la perdita della madre continua a perseguitare Sophia, paurosa di tutto e irrisolta nell’elaborazione di questo trauma rimastole stretto in bocca. McDowell lavora allora sul creare un’atmosfera di sospensione intimista, ricca di calore umano e aggraziata in una regia che sta vicina, vicinissima ai corpi e al loro fondersi con la natura.
Rimangono nel fuori campo gli elementi di disturbo di una modernità che non entra a contaminare la stasi in cui The Summer Book intercetta una riuscitissima sensazione di comfort malinconico (in inglese sarebbe da chiamarlo cozy film), cullata negli atti minimi del camminare, toccare, sentire, stare fermi, sdraiarsi. Ci sono moltissimi piani d’ascolto di Sophia e di sua nonna, che assieme al padre formano loro stessi quella misura del tempo che tutto intorno sembra cristallizzato, colti in tre stadi della vita (gioventù, età adulta, vecchiaia) che portano addosso tre modi diversi di concepire e sintetizzare ciò che stanno attraversando.
Se vuoi fare un film con soli tre attori devi però assicurarti di avere la possibilità di lavorare con tre attori straordinari. E se di Danielsen Lie si è detto, si dice anche dell’empaticissima performance d’esordio della piccola Matthews, che afferra alla perfezione quel mix fanciullesco fatto di stupore e testardaggine. Ma è nell’interpretazione di Close il reale e fondamentale punto di raccordo tra emozioni e sensazioni che The Summer Book costruisce con un taglio di luce alla volta (menzione alla fotografia di Sturla Brandth Grøvlen)
L’attrice si presta con tutta se stessa al gioco, all’ironia, alla tenerezza sfrontate e beffarde del senile. E poi al lavoro di immersione nel luogo che la circonda, al quale il personaggio della nonna appartiene fin dentro le ossa e di cui è una sorta di spirito incarnato. Come sottolinea una liberatoria passeggiata da nuda nel bosco, fino ad arrivare alla splendida inquadratura conclusiva, che tenendo sullo sfondo l’alba proietta le ombre dell’erba sul volto della donna, percorso dalle rughe di un eccellente trucco prostetico. E se è impossibile negare che il film di McDowell cerca di assecondare e cullare l’animo dello spettatore tenendolo sempre in punta di sospiro, è altrettanto impossibile negare che lo faccia davvero molto bene.