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Alessio Zuccari
Trap: recensione del nuovo film di M. Night Shyamalan
Tags: Ariel Donoghoue, Josh Hartnett, m. night shyamalan, Trap
Ah, Manoj Night Shyamalan, mastro dell’artificio cinematografico. Checché se ne possa dire, resta il più furbo di tutti. Perché nonostante abbia vissuto fino a qui una carriera oramai trentennale (fa film da quando aveva ventidue anni) e degna del saliscendi di una montagna russa, il regista classe 1970 non ha mai rinunciato a se stesso. Una parte della critica fatica a digerirlo, un’altra parte lo considera un genio. E a lui, siamo sicuri, piace stare nel mezzo. Qui dove trova la formula per un cinema sempre teso tra intrattenimento ed escapismo, ma con la consapevolezza di conoscerne bene, benissimo, forme e strutture. Anche con Trap, l’ultimo film che scrive e dirige, Shyamalan rilancia una volta ancora.
In questa occasione con un dispositivo narrativo, ludico, teorico persino più scoperto, persino più manifesto. Ci viene infatti detto immediatamente davanti a cosa saremo di fronte, sin da tutto il materiale di campagna promozionale: il protagonista Cooper (Josh Hartnett) è un serial killer e dietro al concerto dove porta sua figlia (Ariel Donoghue) c’è un’operazione della polizia pronta a tendergli un’imboscata. Fine. O meglio, non proprio. Perché questi sono i due terzi di un film congeniato come un puzzle talmente ben pensato e incastrato negli snodi da apparire quasi procedurale, generato sulle casualità e le astuzie del momento.
Che goduria la prima ora di Trap. Fila tutto come vorremmo filasse sempre in un film dell’autore di origine indiane, ottimamente dosato in un atto di equilibrismo tra tensione, meschinità ed umorismo. Perché Trap è un film anche molto ironico. Dopotutto il punto di vista – almeno sempre per questi due terzi – è nello sguardo di Cooper, padre che ha semplicemente portato la figlia al concerto tanto agognato della diva pop Lady Raven. Allora c’è grande interazione, tenera e giocosa, tra i due, genuinamente emozionati l’una per il concerto, l’altro per la gioia della figlia.
Ma poi ad Hartnett, che presta probabilmente una delle sue migliori performance in carriera, si riduce l’occhio a fessura, si contrae il volto ed emerge nella frazione di un’inquadratura l’anima del Macellaio, l’omicida che ha rapito, ucciso e fatto a pezzi dodici persone. Si genera allora un gioco del gatto con il topo, tra dispiegamento massiccio delle forze dell’ordine, profiler dell’FBI e regime dello spettacolo digitale del nuovo millennio (dove, senza svelare troppo, lo spettacolo stesso interviene a giocare un ruolo attivo).
Poi, assieme e successivamente a tutto questo, arriva un’invasione ulteriore della sfera familiare. A un certo punto Trap infatti va, letteralmente, altrove. C’è un’intera altra porzione di film che cambia il passo e i criteri di movimento rispetto a quelli dell’escape room, dove la mano del demiurgo-regista interviene in maniera più massiccia ad indirizzare (sempre con intento manifesto) i perché e le traiettorie logiche della storia. Il crederci così com’è, così come anzi vuole lui, è l’ennesimo atto di fede che Shyamalan chiede al suo pubblico. Ricordate il precedente Bussano alla porta, forse il pamphlet ultimo delle ragioni del suo cinema? È chiaro che questo qui è anche il momento del film in cui lo spettatore rischia di sentirsi allentato nel fiato sospeso o nel sorriso divertito. Non tanto per le evidenti forzature di per sé, quanto piuttosto per un respiro differente rispetto ai dosatissimi dedali della prima ora di Trap. È, insomma, il solito rischio che il regista si prende e con cui traccia uno steccato. Si è dentro o si è fuori, c’è poco da fare.
È il criterio Shyamalan, che con questo film tra le altre cose rafforza anche la sua azienda familiare, che oramai gioca a carte scoperte nel promuovere il proprio nome nel mondo dell’industria dell’intrattenimento. Nei panni di Lady Raven c’è Saleka, figlia maggiore del regista e vera cantante, architrave ai meccanismi narrativi interni (sarà più che solo una quinta di sfondo) e, di rimando, in qualche modo anche allo scheletro drammaturgico che a Shyamalan piace svelare e piegare a proprio piacimento – per intenderci: nel suo consueto cameo l’autore arriva addirittura a indirizzare il percorso degli eventi. In questo 2024 c’è stato poi anche il debutto alla regia di un’altra figlia, Ishana, cresciuta sui set del padre e arrivata nelle sale con The Watchers, film horror di degne intenzioni ma che pare un po’ troppo voler assorbire il cinema del genitore.
Con Trap c’è dunque da divertirsi e lasciarsi risucchiare nel vortice. Il Cooper di Hartnett è irresistibile con il suo misto indissolubile di premura paterna e spietatezza assassina, così come lo è la struttura meta-cinematografica che gli si muove attorno e cerca di ingabbiarlo per il nostro diletto. Stavolta credetegli.
Trap è al cinema dal 7 agosto con Warner Bros. Italia.