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Alessio Zuccari
42TFF | Vena, recensione del film di Chiara Fleischhacker
Tags: 42TFF, Chiara Fleischhacker, Emma Drogunova, Vena
Una coppia scoppiata, una figlia in arrivo e un mandato di presentarsi in carcere per la detenzione. Queste le tre direttrici sulle quali poggiano i conflitti di Vena, il convincente esordio alla regia di un lungometraggio della regista tedesca Chiara Fleischhacker, giovane autrice classe 1993. Protagonisti del film presentato in Concorso al Torino Film Festival 2024 sono Jenny (Emma Drogunova) e il suo ragazzo Bolle (Paul Wollin). Condividono tutto, dall’appartamento ai rave di musica techno, dalla futura nascitura alla crystal meth.
Perché Jenny e Bolle sono due drogati, incapaci di resistere alla tentazione di un consumo che è in realtà aperta dipendenza. E non possono fare a meno di questo bisogno costante di mediare le proprie esperienze e le proprie giornate attraverso lo stordimento delle droghe e della musica suonata a cannone. Per i due sono i vascelli di trasporto dei sentimenti e delle emozioni, amplificatori di una condizione alterata che astrae dalla miseria del vissuto quotidiano.
Vena però non li pone mai in giudizio. Fleischhacker non cade nella tentazione della condanna di questa decadenza umana e il film non indugia a moralizzare i deragliamenti della coppia, osservata anzi anche con una certa tenerezza in alcuni momenti. Certo, li chiama alla responsabilità. Perché di questo argomenta il film, in un intreccio che è composto all’insegna di un arco di cambiamento che si avvita attorno alla scoperta di una seconda possibilità. Per crescere e per redimersi nella figura di quel genitore, e di quella persona, che in precedenza non si è stati (Jenny ha un altro figlio, in affidamento a sua madre). Con la parallela scoperta che forse qualcuno invece di crescere non è in grado, come Bolle, che non è un uomo cattivo, ma è destinato a rimanere incapsulato in uno stordimento adolescenziale e allucinogeno.
E se Vena ha una marcia in più, e ce l’ha, è perché la trova nel suo essere molto sanguigno, pulsante. Pasticche, latte, cerali, birre, sigarette. Un film fatto anche di odori e sapori, mescolati sulla superficie di un’inquadratura con la quale Fleischhacker capisce di dover restare in prossimità di Jenny, del suo corpo, della sua pelle, lavorando sul trasmettere la percezione sensoriale che passa da lei. Bravissima Drogunova, davvero, che comunica il travaglio interiore con movimenti minimi, espressioni controllate e talvolta persino pudiche. Come lo è spesso, quasi imbarazzata, con la sua ostetrica (Friederike Becht), che oltre al supporto nella gestazione è anche un contatto e un’idea di differente maternità, cioè sana.
Grande pregio del film sta però nel non scendere mai, nemmeno per un istante, nella ricerca dello shock, dello scuotimento artificioso, del trauma indotto. Basti pensare a una scena in là nella pellicola che riguarda un parto, ripreso per intero e con chiarezza, sul quale lo sguardo di Fleischhacker si posa senza enfasi, con grande tatto e rispetto. Le immagini di Vena, e la protagonista che queste immagini contengono, si dichiarano e svelano da sé.
Poi incuriosisce e non stona la scelta di far transitare il film in diverse anime, che dal dondolare nell’incertezza della vita sgangherata di una sorta di tardo coming of age arriva addirittura a costeggiare con uno spicchio il prison movie quando Jenny si troverà infine costretta a consegnarsi in carcere. Un’evoluzione minima nel computo di quello che è lo sviluppo narrativo del film, ma che si porta dietro più che altro le implicazioni legate al carattere di tutela della maternità all’interno di un contesto di reclusione e, di rimando, un’ulteriore costrizione sulle conseguenze delle scelte della protagonista. In definitiva un ottimo esordio, con le idee chiare su dove stare e come posizionarsi all’interno del suo dramma.