Top News, Festival
0
Alessio Zuccari
Venezia 81: bilancio sui premi, sulla selezione e sullo stato di salute del festival
Tags: Venezia81
Le jeux sont fait. Sipario sull’edizione numero 81 della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, principale rassegna di cinema del nostro Paese. La presidente di giuria Isabelle Huppert assegna il Leone d’oro nelle mani di Pedro Almodóvar, trionfante con il suo The Room Next Door. Non il miglior film del regista spagnolo, non il più esaltante, non il più compiuto. In fondo poco importa, era forse il momento più giusto per concedergli per la prima volta il premio maggiore di uno dei maggiori festival al mondo. Persino in ritardo, forse: sempre a Venezia arrivò il premio alla carriera, nel 2019.
Certo, si fa quantomeno ironico il constatare come il riconoscimento sia giunto ad Almodóvar, autore che sulla propria lingua e territorialità ha basato un’intera quarantennale carriera, proprio nel momento in cui affronta per la prima volta un progetto in lingua inglese, con due interpreti di calibro internazionale come le premio Oscar Julianne Moore e Tilda Swinton. Ennesimo sintomo di come il Festival di Venezia trovi nell’occhiolino ad Hollywood una ragion d’essere? Non che sia necessariamente un male. Ma una condizione strutturale che, in un anno abbastanza magro di produzioni americane di profilo (complice il contraccolpo degli scioperi di categoria dell’anno scorso), segnala una selezione del Concorso poco incisiva e ben poco votata alla scoperta di nuovi sguardi.
In quest’ottica si riflette un palmarès senza sussulti e piuttosto costretto. Gran Premio della giuria al Vermiglio di Maura Delpero, l’opera più solida e chiara della cinquina italiana in gara. Campo di battaglia, Iddu, Diva Futura di molto indietro, ciascuno indice di un cinema o concepito fuori tempo, o indeciso oppure troppo conforme al gusto simil-Netflix. Discorso a parte per Queer: nessuno che si sia chiesto che fine avesse fatto Andrew Haigh durante la cerimonia di premiazione, alla quale non era presente. Indisposizione fisica o indisposizione intellettuale? Che c’entrasse proprio la mancata assegnazione di un riconoscimento al film più intimo e struggente di Luca Guadagnino? La sorpresa in Orizzonti, sezione aperta dal tiepido Nonostante di Valerio Mastandrea: lì il Miglior attore è andato a Francesco Gheghi per Familia di Francesco Costabile.
Premio speciale per la regia, sacrosanto, a Brady Corbet per The Brutalist, opera fluviale, bulimica, gigantista. Pellicola (letteralmente: proiettato a Venezia in 70mm) imperfetta, spesso fuori fuoco e non manchevole di contraddizioni interne: ma un cinema come quello di questo regista oggi non sembra esistere da nessun’altra parte. Conservativa la Coppa Volpi maschile a Vincent Lindon per il modesto e retorico The Quiet Son (Jouer avec le Feu) di Muriel e Delphine Coulin. Dell’attore non si discute: Lindon è un interprete straordinario, valorizza ogni film solo con i soli sguardi e silenzi. Ma l’esordire al suo discorso ringraziando per tre volte la presidente Huppert alimenta l’idea della “quota francese”. Riconoscimento che va a braccetto con il Marcello Mastroianni, assegnato al giovane Paul Kircher per il non proprio riuscito Leurs Enfants Après Eux (And Their Children After Them) di Ludovic Boukherma e Zoran Boukherma. Da oltralpe quest’anno cinema tutt’altro che brillante.
Coraggiosa invece, c’è da ammetterlo, la Coppa Volpi femminile a Nicole Kidman per Babygirl, film sbertucciato dai più che non ne hanno compreso l’angolo di visione, dove l’attrice si pone con il suo corpo in una posizione di riflessione introspettiva su carriera e vissuto personale. Operazione di maturità che piace a Hollywood: occhio agli Oscar. Miglior sceneggiatura a Murilo Hauser e Heitor Lorega per I’m Still Here (Ainda Estou Aqui), film di denuncia politica, archiviazione storica e memoria didattica. Classica pellicola impossibile da ignorare per una giuria. Infine Premio speciale della giuria alla regista georgiana Déa Kulumbegashvili con il suo April. Almeno qui un pizzico di Guadagnino, che produce, in un’opera seconda che sorpassa le cose buone fatte con l’esordio Beginning e si traduce in un cinema d’autore ostico oltre la soglia del necessario; va bene il tema, dell’aborto e della Georgia politico-sociale, meno l’ermetismo gratuito.
Al di fuori di questo, non restano molti altri titoli che si siano dimostrati in grado di catalizzare il discorso. Di sicuro Joker: Folie à Deux, il paventato sequel musical su cui la maggior parte della critica ha calato la scure della bocciatura. Era lecito aspettarsi di più. Più a margine, nella nicchia, il trip post-fiction di Harmony Korine, Baby Invasion, o il salvifico Broken Rage di Takeshi Kitano, crasi cinematografica delle due anime che convivono nell’autore giapponese, il crudo e il saltimbanco. Youth: Homecoming di Wang Bing, araldo del cinema asiatico al festival di quest’anno, è invece arrivato in programmazione davvero troppo tardi; l’hanno visto in pochissimi.
E poi il detrito di qualche polemica. Dopo la de-glamourizzazione del 2023, in cui la Mostra è concisa con l’ondata dei già citati scioperi negli Stati Uniti, al Lido sono tornate le star. Lady Gaga, Joaquin Phoenix, Brad Pitt, George Clooney, Cate Blanchett, Wynona Ryder, Jenna Ortega. Altissime, irraggiungibili. In questa edizione molta meno disponibilità da parte dei talent internazionali e dei loro entourage a concedere interviste e attività stampa, linfa vitale del lavoro, soprattutto freelance, di cui si alimentano gli inviati ai festival. Una situazione complessa denunciata inizialmente su Variety e poi rilanciata in Italia su Movieplayer e Il Post. Ennesima picconata al ruolo della critica e del giornalismo culturale, affaticati già da una situazione critica del sistema editoriale italiano e anche da un’implicita frammentazione del tessuto collaborativo che lega i vari reparti dello spettacolo e dell’informazione. Argomento complesso, ma l’ossigeno è poco. Arrivederci all’anno prossimo!