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Martina Barone
Venezia79 | Blonde: recensione del film con Ana De Armas
Tags: ana de armas, blonde, Venezia79
Norma Jean/Marilyn Monroe rivive in Ana De Armas nel film Blonde, targato Netflix e del regista e sceneggiatore Andrew Dominik
Andrew Dominik ce l’ha fatta. Non solo ha portato Blonde sullo schermo, ma è riuscito anche in quello che pochissimi sono in grado di fare, donando un film pregno di un senso di cinema scrosciante e straboccante, degno di un sogno allucinatorio di cui fu protagonista una donna, una diva. Un essere umano al confine col personaggio, che lei stessa iniziò a confondere e finì per assuefarla, non potendo proseguire l’una senza l’annullamento e la continua rinascita dell’altra. Da una parte Norma Jean, da una parte Marilyn Monroe. Da una parte una figlia mai voluta, maledetta come la definisce la madre, bambina dal padre ignoto e per tutta la sua esistenza ricercato. Dall’altra invece la donna desiderata da un intero mondo, da appassionati, fan, uomini dalle bocche voraci (come li rappresenta e li inquadra il regista), che della sua recitazione dubitavano e se ne beffeggiavano mentre le osservavano sbavanti i fianchi ondeggianti.
Una dicotomia che Blonde rimarca, assieme all’appiattimento della barriera tra realtà e finzione, che per tutta la sua esistenza è stata il cruccio di Norma Jean e del suo desiderio di essere semplicemente amata. Che fosse da genitori che non l’hanno in verità voluta, che si trattasse della brama di una folla prodiga di applausi che potesse colmare quel dolore. Traendo ispirazione e spunto dal romanzo tra invenzione e biografica di Norma/Marilyn, Dominik si avvale della densità delle pagine della scrittrice Joyce Carol Oates per ridisegnarle attraverso delle illustrazioni che sono le vere pennellate di un film che viene pensato prima di tutto come visivo e messo insieme per dare senso a quelle linee e quelle forme.
L’ideazione di una pellicola che mai come altre negli ultimi anni parte dalle sequenze, dalla messinscena, da una scrittura per immagini che è il linguaggio natale del cinema e che l’autore padroneggia contraendola nel suo spazio creativo. Trasformando stelle nel cielo in spermatozoi pronti a entrare in collisione con l’ovulo. Passando da aerei su cui destreggiarsi con la mente annebbiata dai medicinali a première ricolme di spettatori, tutti sorridenti e entusiasti del nuovo show messo in piedi attorno alla presupposta e in verità infondata frivolezza suggerita dalla bellezza e procacità di Marilyn Monroe.
Dominik orchestra il divenire di un’armonia devastante, di un melodramma insito nel personaggio, pubblico e personale, che sceglie di raccontarla con i punti cardini e conosciuti ai più della sua vita volendone però dare la propria versione, la versione di Norma. L’esistenza e la carriera di Norma/Marilyn si contagiano vicendevolmente pur nell’insistenza della donna di mantenere saldamente un’autenticità di cui lei sola ne è rimasta l’unica consapevole nel corso degli anni. Anche per chi credeva l’avesse capita, chi sperava fosse riuscito a vederla per ciò che è davvero.
Nei cambi di montaggio, nell’assunzione di più e svariati formati adatti a tagliare ognuno a proprio modo lo schermo, Blonde è il dramma dietro al divismo conosciuto e esplorato a più riprese. È la tragedia che viene esasperata, predetta anche dall’incendio iniziale, un inferno verso cui la piccola Norma Jean viene condotta e le cui fiamme continueranno a bruciarle attorno in una tensione di morte che è la stessa che l’ha accompagnata per il resto dei suoi giorni.
Ana De Armas accetta con coraggio una sfida che la vede mettersi a nudo in progressivi e svariati traumi, per una fragilità che renderà troppo difficile per l’icona saper fronteggiare la superficialità che gli altri le hanno continuamente riservato, glorificandola e adorandola solamente nel suo essere “pezzo di carne”. Ed è ancora qui che Andrew Dominik, come un chirurgo farebbe col bisturi, incide con precisione per restituire l’essere sminuita e umiliata di Marilyn Monroe. Nella rievocazione della famosissima scena di Quando la moglie è in vacanza, con quella gonna svolazzante che è la medesima con cui il film si apre, il regista ripete e ripete e ripete ancora lo stesso movimento di macchina e quell’inquadratura per estremizzare al massimo la sessualizzazione dell’attrice. È come dice Norma, con Marilyn è così. ”Come i critici, alcuni la odiano, alcuni la amano.” Ma è inevitabile per la donna (quella vera) domandarsi: ed io, che cosa c’entro io?
Un po’ come il suo personaggio anche Ana De Armas, seppur devota nella recitazione, viene sobbarcata dall’immensità del Blonde di Dominik, travolta dalla sconvolgente tortuosità dell’immaginario assemblato dal suo autore, troppo esteso come la macchina mediatica che ha investito e martoriato la diva. Una scrittura visiva pregna di una cinematografia che quel confluire in una sola star ne disseziona ciò che per lei fu importante nella vita e che non riuscì mai ad avere (“Non sono una stella, sono solo bionda”). La transizione da fisicità a pellicola che l’opera, cioè l’ossequiosa osservanza di Andrew Dominik, sublima fino alla fine. Nella morte, in quel momento preciso, della donna/attrice l’autore inquadra dall’alto un corpo esanime a cui sovrappone un fantasma evanescente. Mentre Norma non c’è più, Marilyn ci guarda sorridente abbracciando amabilmente il cuscino. È lei che le sopravvivrà, che sopravvivrà a Norma. È lei che verrà per sempre ricordata, svuotata e fittizia del tutto. Per una delle opere più poderose e inaccessibili fatte di e per il cinema.