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Martina Barone

Venezia79 | The Whale: una recensione personale come qualsiasi dolore

Tags: Brendan Fraser, The Whale, Venezia79
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Martina Barone

Venezia79 | The Whale: una recensione personale come qualsiasi dolore

Tags: Brendan Fraser, The Whale, Venezia79

Brendan Fraser in The Whale interpreta un personaggio che rincorre la sua balena bianca: l’umanità

Nel film The Whale il protagonista invita i suoi studenti alla sincerità. L’uomo è un docente di inglese, il quale tiene corsi online per la stesura di temi e tesine in cui cerca di estrapolare dai suoi alunni un barlume di verità. È per questo che sarebbe disonesto da parte di chi scrive, in questo caso me stessa, non mettersi in prima persona per parlare di una delle pellicole più empatiche della 79esima Mostra del Cinema di Venezia. Raccontare cosa è stato per me vivere una visione in grado di toccare fino ad arrivare sulla pelle. E di epidermide, di carne e di corpo è proprio l’opera medesima a parlare. A mostrarla e sbatterla davanti con i trecentosessanta chili del protagonista, veicolo fisico per affrontare i disagi di un’esistenza che ci logora talmente tanto al nostro interno da riflettersi anche al di fuori di esso.

“Io ti disgusto?” chiede il personaggio di Brendan Fraser arenato ad un divano, un letto, una sedia a rotelle che devono fargli da supporto per poter stare e muoversi nel mondo, sempre aggrappandosi a qualcosa o appoggiandosi per non cadere. Guardando con la limpidezza di chi la verità la conosce amaramente, pur accettandola con una serenità spiazzante e un’evidente malinconia negli occhi. Quella che tutti gli spettatori si ritrovano a percepire di fronte a The Whale, preferendo a volte fingere di non sentirla invece che lasciarla pulsare nella testa e nelle vene. Per non riconoscere che anche noi, probabilmente, avremmo cercato di distogliere lo sguardo pur di non rispondere a quella domanda. Incrinando e spezzando il tono della voce pur di fare uscire una bugia buona.

Il dolore di Charlie  

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Credits: La Biennale di Venezia

Ma il film di Darren Aronofsky è talmente onesto che al regista non serve nemmeno esagerare col compatimento. L’ideatore della storia, inizialmente pièce teatrale di Samuel D. Hunter il quale viene impiegato anche per la sceneggiatura dell’adattamento cinematografico, ha fatto in modo che nell’asciuttezza dei dialoghi e nel desiderio del protagonista di tentare di afferrare qualcosa di autentico prima di morire non risultasse alcun pietismo, il quale avrebbe altrimenti condotto lo spettatore a dover assistere ad una pornografia del dolore. 

Inaccettabile, ma vero, a suscitare quel senso di incomodità che io, ma sfido chiunque a dire il contrario, ricevevo dalla visione di Charlie e dal suo degrado era l’idea – espressa nella forma e dal corpo dell’uomo – che qualcuno avesse potuto ridursi così. Che una persona, un uomo qualunque, provato talmente tanto dalla vuotezza che può riservare spesso la vita, abbia sentito la necessità di colmarla ingerendo pasti ipercalorici e zuccheri a non finire, accentando coscientemente di ingrassare e, silenziosamente, di perire.

The Whale: come si può osservare, e fare, il male?

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Credits: La Biennale di Venezia

Guardare Brendan Fraser basta per far iniziare a sgorgare le lacrime. Semplicemente trovandolo lì, sullo schermo. E al pari di quando un arto viene mutilato o qualcuno torturato o non si può sopportare la vista del sangue, lo stesso vale per il mangiare compulsivo del suo protagonista che, quasi con nostro medesimo imbarazzo, ci fa distogliere lo sguardo. E allora ti domandi: come mai? Non vuoi osservare qualcuno farsi del male. Non vuoi rimanere impassibile mentre un uomo sta ponendo fine alla sua esistenza. Non puoi tollerare che questa persona non si voglia nemmeno un piccolo briciolo di bene. Perché se non se ne vuole lui, per quale motivo dovremmo volergliene noi?

E l’imbarazzo allora ritorna. Le lacrime continuano a rigarci il viso (il mio sicuramente), poiché se Charlie si dimostra incapace di prendersi cura di se stesso diventa chiaro che non saranno di certo gli altri a farlo. Anche avendo accanto la sua migliore amica, anche non facendosi poi così tanto odiare dalla sua ex moglie o dalla figlia che ha abbandonato. Appena un passo fuori dalla sua cerchia di sicurezza e il mondo sarebbe pronto a sbranarlo, in qualsiasi delle sue parti adipose. Ed è anche per questo che ho pianto più di quanto ho trovato il film effettivamente bello. È per la cattiveria che a volte sembra risiedere più radicalmente in noi rispetto al voler davvero proteggerci e aiutare, come gli esseri umani avrebbero dovuto imparare a fare nel corso dei secoli.

Ognuno ha la sua balena bianca

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Credits: La Biennale di Venezia

Non guardare quando Charlie mangia significa non voler guardare quanto la gente può essere davvero meschina tanto da spingere qualcuno a doversi sfogare in qualsiasi maniera possibile pur di stare meglio. Anche quando ciò che ti aiuta, in verità, non lo fa affatto. È per quanto possiamo essere egoisti, opportunistici, sadici, ignoranti, sprezzanti che la pellicola fa male, fa singhiozzare. Assisterne la visione è assistere ai nostri giorni contati, non solo quelli di Charlie.

È una balena bianca, che nella pellicola e nel titolo richiamano la storia del libro Moby Dick, che per il protagonista è la gentilezza e la preservazione di un barlume di umanità. Quella che proviamo costantemente a distruggere, per distruggerci. Forse è un mito di cui abbiamo sentito narrare, forse è un obiettivo impossibile da conquistare. È sicuramente la sofferenza più grande: quella che ci mette davanti al fatto di quanto possiamo essere crudeli, con noi e con l’altro. 

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