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Alessio Zuccari
Indiana Jones e il quadrante del destino, recensione del nuovo film della saga
Tags: harrison ford, indiana jones e il quadrante del destino, phoebe waller-bridge
Harrison Ford torna nuovamente nei panni del leggendario archeologo, alle prese ancora una volta con un complotto nazista e poi anche con il passare del tempo.
«Questo è un mondo che non si cura più di uomini come noi» dice il nazista di turno, Mads Mikkelsen, a Jonesy in Indiana Jones e il quadrante del destino. L’orologio ha ticchettato in avanti, le lancette ne hanno fatti di giri. La celebre citazione «dovrebbe stare in un museo», che torna, come tornano qui e lì volti e riferimenti, rimbomba in testa quasi come un monito. Anche il leggendario Indiana Jones è una reliquia che appartiene al passato?
Anche lui va conservato, messo sotto formaldeide, chiuso in una teca e musealizzato in una stanza in penombra come quella dalla quale a un certo punto scappa terrorizzato rovesciando tutto? È un quesito che trascende il personaggio così come lo troviamo nel 1969, calato in un futuro issatosi sempre più in alto, fin sulla Luna, da poco conquistata dalla missione Apollo 11. È una domanda che fa chiaro eco all’Indiana Jones icona, all’oggetto di culto mitizzato, al cappello e alla frusta indossati a intervalli irregolari lungo quattro decenni da uno degli ultimi grandi, grandissimi divi, Harrison Ford. Si può mettere in museo Harrison Ford?
E quindi è anche una domanda da porre al mondo del cinema, che è certamente museo e archivio, ma che è anche strumento tecnologico innovatore, luogo di sperimentazione per l’allungamento della vita su schermo, della longevità dell’immagine. E in un’epoca in cui l’immagine assolve (spesso amaramente) ogni giorno di più a sinonimo di realtà, della longevità a tutto tondo. Indiana Jones e il quadrante del destino, per la prima volta nella storia della saga con Steven Spielberg e George Lucas solo in veste di produttori, è quindi un film che lavora sul doppio filo del personaggio e dell’icona.
Nella lunga sequenza d’apertura facciamo un salto nel passato. Jones e il suo sodale Basil (Toby Jones) stanno cercando di recuperare un reperto in una Germania nazista prossima al collasso. Il volto dell’archeologo è levigato, privo di rughe e delle scorie del tempo, ringiovanito grazie alla tecnica digitale del de-aging. Una tecnica che è impressionante, ma ancora imperfetta, alla quale si crede perché si vuole credere e che un occhio allenato riesce ancora a smascherare, che fa leva sulla dirompenza dell’icona, della sua alta riconoscibilità. Eppure eccolo il museo che non è solo museo, la fucina che dal suo sconfinato database non si limita ad esporre, ma genera un nuovo ricordo, una rêverie, un sogno ad occhi aperti.
Poi, si interrompe. C’è Indiana Jones oggi, nel giorno della sua pensione, che quel passato lo immagina, probabilmente lo brama, ma che è costretto a fronteggiare una inevitabile senilità di mesta solitudine. La sua strada viene incrociata da quella della figlioccia Helena (Phoebe Waller-Bridge), figlia del defunto Basil che ammicca più all’interesse personale che alla polverosa ideologia dei padri. È invischiata nella ricerca del quadrante di Archimede, un congegno ideato dal geniale matematico che dovrebbe indicare la posizione di varchi spazio-temporali. Sulle sue tracce c’è però anche Jürgen Voller (Mikkelsen), una sorta di alter-ego maligno del padrino del progetto Apollo Von Braun, desideroso di tornare indietro e cambiare le sorti della Seconda guerra mondiale.
La sceneggiatura di Indiana Jones e il quadrante del destino, a firma di Jez Butterworth, John-Henry Butterworth, David Koepp e James Mangold, che dirige anche il film, è un meccanismo a scatole cinesi. Sfrutta tutti gli espedienti del grande blockbuster contemporaneo, la sua frenesia, la sua mobilità attorno al globo, il suo massiccio utilizzo degli effetti visivi, la sua frequente apertura alla possibilità di un dopo alternativo (Waller-Bridge non è lì per caso), integrandoli alla tradizione e all’eredità di Indiana Jones. Sbuca il Sally di John Rhys-Davies, si citano senza troppi fronzoli momenti iconici dai capitoli precedenti della saga (la strettoia con le scolopendre), poi si introducono comprimari sulle orme del passato come il giovane Teddy di Ethann Isidore (calco dello Shorty di Ke Huy Quan) e altri pittoreschi figuri come il sottoutilizzato Renaldo di Antonio Banderas.
Ma strato dopo strato, non reinventando nulla sul piano dell’intrattenimento limitandosi ad eseguire con attenzione, il nocciolo che si disvela rimane quello lì. Ovvero il raffronto con un tempo che forse non è davvero riavvolgibile, che anche con l’utilizzo dell’ingegno, della matematica e quindi dei più complessi algoritmi conduce nell’unico punto ed esito possibile.
Ragionando in questi termini Indiana Jones e il quadrante del destino non può quindi non cedere un poco al sentimentalismo, immaginare per il suo protagonista che si è mosso avanti e indietro lungo la linea del tempo un decorso il più naturale possibile, lontano dai punti di fuga offerti da antichi manufatti o dalla tecnica fatta di pixel.
È un commiato molto umano quello che attende al termine delle due ore e venti di film, che con l’ultimissimo istante dell’ultimissima inquadratura sorride beffardo alla formaldeide, alle teche, alla polvere degli scaffali, decretando che Indiana Jones non ha più ragione di tornare, ma no, non è nemmeno reperto da museo.