Il sesto appuntamento del Sony’s Spider-Man Universe non cambia la sinfonia stonata di una saga al rovescio.
Per parlare di Kraven – Il cacciatore ci piacerebbe iniziare da un simpatico, ma non meno paradigmatico, dettaglio. Nella sequenza di avvicinamento al finale del film diretto da J.C. Chandor, quella in sostanza di preparazione allo showdown conclusivo che ci sarà da lì a qualche istante, salta all’occhio lui. Chi è lui? Uno scagnozzo con due o tre linee di dialogo, braccetto destro di Rhino (Alessandro Nivola), il villain di una storia che ha un gran problema in numero e gestione dei personaggi. Ci torneremo, ma per adesso restiamo su lui.
Occorre sottolineare dove siamo, cioè da qualche parte nella Russia orientale. Qui Kraven (Aaron Taylor-Johnson, che flette il muscolo a ogni inquadratura utile) ha il suo covo, una casetta semisferica a vetri immersa nel bosco e in perfetto spirito cozy per un weekend romantico lontano dalle frenesie urbane. Si avvicina allora la caccia a questo pericolosissimo individuo, protagonista dai poteri sovrannaturali che ha dilaniato comparse su comparse tanto da far guadagnare al film il vietato ai minori di quattordici anni. Benissimo. Abbiamo il chi, abbiamo il dove, abbiamo il quando. Tocca al cosa, di cui a noi interessa di più il come. E come si presenta lui in mezzo a questo squadrone di morte in uno scenario destinato a tingersi di rosso? Con una felpa acetata di Sergio Tacchini.
Un’opera confusa e priva di carisma
Photo Credits: Sony Pictures Italia
Resta allora da chiedersi il perché. Non tanto perché Kraven – Il cacciatore faccia arrivare lui, qui, davanti a questa situazione, con la stessa felpa che indossava nell’inquadratura precedente, ma dall’altra parte del mondo, a Londra. Piuttosto perché Kraven – Il cacciatore, che di dettagli idiotici simili è disseminato, dovrebbe farci credere, anche solo per un istante, di essere un film di senso compiuto. Non pretendiamo riuscito, dopotutto di opere non riuscite ne sono pieni i cinema. Ma di senso compiuto. Di capacità di collegare con un nesso logico il punto A al punto B, di non trincerarsi dietro le brutali ellissi temporali e spaziali che affettano una storia priva di fulcro, motivazioni, pathos.
Lasciano francamente esterrefatti come siano concepite in maniera simile sceneggiature di progetti ultramilionari appartenenti a franchise altrettanto ultramilionari. Perché qui non siamo nel dubbio gusto, ma nel dilettantesco. Avrebbe senso fino ad un certo punto additare la colpa alla writing room, composta in questa occasione da Richard Wenk, Art Maccum e Matt Holloway. Perché basta osservare come ciò si sia ripetuto per tutti, ma proprio tutti, i film appartenenti al già fallimentare Sony’s Spider-Man Universe. Vien quasi da pensare che ci sia del metodo, una contro-pianificazione industriale. Un contro-universo, con contro-regole di scrittura e contro-carisma.
Da un film tale ci si attenderebbe dopotutto questo, carisma. Altrimenti che senso avrebbe andare a prendere anche un attore come Russell Crowe, nei panni del trafficante russo che è padre di Kraven e che gli ha causato una montagna di daddy issues? Ma il carisma se lo mangia tutto una trama inesistente – riassumibile con: dei cattivi si fanno dei torti a vicenda e Kraven uccide i cattivi – che sposta di continuo il baricentro del qui e ora, facendo trotterellare avanti e indietro per il globo personaggi che si affermano categoricamente spietati o giustizieri senza però mai pensare, riflettere, evolvere. Sarebbe stato interessante esplorare le implicazioni interiori di Kraven, qui rispettoso della natura da cui trae i poteri e allo stesso tempo eccellente assassino d’umani.
Cosa farsene di così tanti personaggi
Photo Credits: Sony Pictures Italia
Sulla carta Kraven – Il cacciatore poteva essere quantomeno un’opera d’azione dritta, senza troppi slanci riflessivi, senza troppe implicazioni. Ma si porta appresso quest’ansia costante di dover fare qualcosa di più, di dover competere nello showreel di personaggi dei fumetti, buttando in carreggiata pure un fratello-MacGuffin (Fred Hechinger), una proto-origin story di Calypso Ezili (Ariana DeBose, letteralmente in unica quota femminile e per di più in risonanza a Black Panther), un mini-boss come lo Straniero (Christopher Abbott). Non c’è mai tempo e spazio per dare una parvenza di dignità a nessuno di loro, pedine pretestuose e meccaniche in uno scacchiere già di per sé rovesciato.
Si salvano le sequenze di azione? Sì… se avete a portata un sacchetto per il mal di mare. Perché le scene di zanna e di sangue qualche trovata interessante la avrebbero pure da buttare nel pentolone, se non fossero però falcidiate da un montaggio ben più brutale e spietato di quanto non sia Kraven stesso. Anche lì, dare colpa a chi ci ha lavorato (Craig Wood) lascia un po’ il tempo che trova. I problemi di progetti come questi stanno quasi tutti a monte. In mano a chi li concepisce, a chi li rimpasta, a chi mette veti. E così, a noi, poi non resta altro che prendercela con un uomo in felpa acetata.
Kraven – Il cacciatore è al cinema dall’11 dicembre con Sony Pictures Italia.