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Mission: Impossible - The Final Reckoning, recensione del film con Tom Cruise
Alessio Zuccari

Mission: Impossible - The Final Reckoning, recensione del film con Tom Cruise

Tags: Christopher McQuarrie, Mission: Impossible - The Final Reckoning, tom cruise
Mission: Impossible - The Final Reckoning, recensione del film con Tom Cruise
Mission: Impossible – The Final Reckoning, recensione del film con Tom Cruise

Mission: Impossible - The Final Reckoning, recensione del film con Tom Cruise

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Alessio Zuccari
Tags: Christopher McQuarrie, Mission: Impossible - The Final Reckoning, tom cruise

Arriva al cinema dal 22 maggio con Eagle Pictures l’ultimo capitolo della saga action, diretto da Christopher McQuarrie.

Vangelo secondo Tom Cruise, capitolo otto: Mission: Impossible – The Final Reckoning. O di come la fibra di una delle saghe più redditizie e durature della storia del cinema (il primo film usciva nel 1996) sia innervata dalla canonizzazione definitiva di un nuovo profeta: Ethan Hunt. “Sei il prescelto”, gli dicono e ripetono ancora e ancora, più di quanto abbiano mai fatto prima. Prescelto per cosa? Per salvare il mondo, un’ultima volta. Ma anche e soprattutto per riaffermare la centralità dell’essere umano nel cinema – e quindi nelle cose della vita – contro l’attentato destabilizzante di un digitale che ci rende piccoli piccoli.

Osannato come salvatore dopo il successo di Top Gun: Maverick, con ostinazione condotto in sala in un momento in cui tutto usciva in streaming, anche Mission: Impossible era pronta a continuare a fare di Cruise il suo perno cruciale. La chiave di volta di una saga che capitolo dopo capitolo ha trovato il modo di innovarsi, espandersi, ricodificarsi nel linguaggio e nell’ambizione sia ludica sia produttiva. E che nel farlo s’è affidata completamente al corpo attoriale di Cruise, che è diventato corpo messianico di quella che possiamo virgolettare come “una certa idea di fare cinema”, e di rimando corpo evangelista di una determinata visione del mondo.

Mission: Impossible – The Final Reckoning di cosa parla

Mission: Impossible - The Final Reckoning, recensione del film con Tom Cruise
Photo Credits: Eagle Pictures

Mission: Impossible – The Final Reckoning, alla cui regia torna il fedele gregario Christopher McQuarrie, è uno dei film più costosi della storia del cinema, con budget stimato tra i 300 e i 400 milioni di dollari. Una cifra fuori scala per una produzione lunga e altrettanto fuori scala, disposta su imperativo del vero deus ex machina, Cruise, che in questo momento della sua carriera può imporre e disporre.

Non è stato sempre così. Gli inizi anni Duemila non lasciarono presagire il meglio per un attore sulla cresta dell’onda già da vent’anni, con all’attivo collaborazioni con i principali cineasti statunitensi. L’ombra lunga del suo coinvolgimento in Scientology ne stava minando lo status da divo e, più pragmaticamente, da frontrunner di grandi incassi. La sua storia è cambiata e del suo coinvolgimento nell’organizzazione si parla meno, ma è sempre più arduo scindere la maniera in cui l’uomo Cruise (le sue credenze, i suoi precetti, la sua politica) si intersechi al Cruise attore (il suo potere contrattuale, il suo ascendente, il suo intendere il ruolo e il mestiere).

Dopotutto Mission: Impossible – The Final Reckoning, che prende il via lì dove finiva Dead Reckoning e almeno nominalmente è il capitolo conclusivo, si sdoppia in due binari complementari e soprattutto manifesti. Quasi catechistici: il racconto del tentativo soverchiante della tecnica digitale sulle cose dell’uomo e la sconfitta di questa tecnica attraverso l’esercizio concreto, della pratica antropocentrica.

Un’affermazione mai così palese nel ridurre la distanza che separa il cosa voler dire dal come lo si va a dire. Per questo così affascinante, perché l’una si sostanzia nell’altra attraverso un rito di lacrime, sangue e sudore, dove di mezzo si attesta persino una santificazione che passa dalla morte e dalla resurrezione. Il tiro è insomma alto, elevato, trasceso, ma allo stesso tempo scoperto, comprensibile e quindi raggiungibile.

L’ultimo battesimo cinematografico

https://myredcarpet.eu/mission-impossible-dead-reckoning-parte-uno-la-recensione-del-settimo-capitolo-della-saga/?highlight=dead%20reckoning
Photo Credits: Eagle Pictures

“Sei reale? Sei reale?” chiede Hunt dopo aver incontrato nel reame del virtuale l’Entità, l’arcinemica intelligenza artificiale che è antagonista di questi ultimi episodi. Lo chiede mentre annaspa nel terremoto sensoriale causato dalla sovrabbondanza dell’informazione, sempre più incerta, sempre più falsificabile, sempre più autoavverante profezia. Tappeto tematico alla base di un canovaccio tra i più essenziali degli otto film, steso per sommi capi con il piglio enunciativo di un insegnamento esemplare, da parabola, in linea con la convergenza verso la figura centrale e risolutiva del protagonista-venuto-per-salvarci.

Questa è la componente meno ficcante di una pellicola che comunque dura quasi tre ore, in cui la prima è in sostanza scevra da ogni movimento action. Mission: Impossible – The Final Reckoning è caricato della consapevolezza del suo ruolo di chiusura, e in questa porzione si adopera in un omaggio ai capitoli che lo hanno preceduto, in uno sforzo (non poco micragnoso e ridondante) a tessere connessioni narrative interne che vogliono far trovare Hunt esattamente dove le sue azioni trentennali lo hanno condotto.

Un rimpallo fitto e insistito su tantissimi primi piani tra il divismo e l’emotivo del protagonista, ma anche di tutti i componenti vecchi e nuovi (Hayley Atwell, Ving Rhames, Simon Pegg, Pom Klementieff) di una squadra che è famiglia. Non come quella però proclamata da Vin Diesel, l’altro superuomo ed evangelista (con in petto la croce) dell’Hollywood di oggi, più coatta e patriarcale che tuttavia inganna prostrandosi alla cosmesi di un digitale a cui ha venduto anima e muscoli.

Poi Mission: Impossible – The Final Reckoning si apre all’azione erratica tipica del suo genere. Quando dovrebbe impennare nel ritmo si affida a due macrosequenze già a lungo decantate e mitizzate per come sono state realizzate tutte dal vero, quella di una sorta di caccia al tesoro in un sottomarino distrutto e quella di un inseguimento tra due aerei con gli stunt performati interamente da Cruise. Ecco, più che un film action è il definitivo film performance: meno spettacolare nell’accezione pirotecnica del termine, dove sulla concezione di spettacolarità però non può non intercedere la mediazione di una consapevolezza che rimane ammaliata dal sapere come quell’immersione o quella danza tra i cieli siano atto concreto, certosino, di carne e tendini.

Un racconto di resistenza il cui principale limite allo sfogo concettuale poggia tuttavia nello stallo che emerge nel momento in cui il film vuole dire proprio queste cose facendole proprio in questa maniera. Cioè riconducendo tutto alla concretezza materica, ai procedimenti umani e agli oggetti tramite cui metterli in atto. VHS, vecchie radio ricetrasmittenti, biplani pre-elettronici, codice morse. Che è un’inevitabile, seguendo la Cruise-parola, riduzione a gabbie narrative che bypassano la pervasività complessa e sfuggente della sfera digitale per raccontarne un’esistenza comunque ancorata a server e luoghi reali. Quindi di rimando ad una forma visualizzabile, interpretabile e infine affrontabile, da ri-subordinare al padrone del mondo reale, l’uomo.

Ciò non impedisce che l’ultimo battesimo sia consumato, con il potere sacrale dell’immaginario riaffermato per intercessione dell’ultimo homo cinema, su comandamento del ‘vivere e morire nell’ombra, per chi non si conoscerà mai’. Anche se il suo, di nome, lo conosciamo eccome.

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