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Alessio Zuccari
Gran Turismo: recensione del film di Neill Blomkamp
Tags: david harbour, gran turismo, neill blomkamp, orlando bloom
Gran Turismo è tante cose. Gran Turismo è troppe cose assieme. Quella più evidente e che regge il senso dell’intera operazione è il Gran Turismo adattamento cinematografico dell’omonimo videogioco. Dietro al progetto c’è infatti PlayStation Productions, neonata società di produzione con il compito di portare i grandi successi PlayStation sul grande e piccolo schermo – di recente abbiamo già visto Uncharted e soprattutto The Last of Us.
C’è poi il Gran Turismo storia vera, con al centro del racconto Jann Mardenborough, giocatore di eSport che grazie a un contest online è diventato pilota professionista. C’è quindi anche il Gran Turismo film sportivo a tutti gli effetti, genere che si sposa perfettamente alla causa dell’outsider, dell’underdog, dello sfavorito che scala classifiche e simpatie. C’è tutto questo nel Gran Turismo diretto da Neil Blomkamp – in cerca di una raddrizzata alla propria carriera – e scritto dallo stesso regista assieme a Jason Hall e Zach Baylin. Ma tutto questo, che abbiamo già detto essere forse eccessivo, sconta l’invadenza davvero ingombrante di un marketing ipertrofico.
Gran Turismo è infatti, anzi soprattutto, un lunghissimo spot commerciale. Ed è straniante, in particolare per la prima abbondante ora di film (che ne dura in totale quasi due e un quarto), il modo in cui sia così sfacciatamente evidente l’asservire l’opera al puro fine promozionale. Stona per alcuni motivi. Il primo è di carattere narrativo e di coerenza emotiva. Siamo schiaffati dentro la vita dell’adolescente Jann (Archie Madekwe), che ha lasciato l’università e passa le giornate dietro la sua postazione da gara virtuale.
È chiaro che il primo conflitto proviene dal confronto con genitori (Djimon Honsou e Geri Halliwell) che proprio non capiscono la sua passione, il suo talento, le sue potenzialità. Questo rapporto con la famiglia è però estremamente artificiale, sfruttato come cuore solo a parole e reso contrappunto di un conflitto interiore che definire di superficie è poco. Non sarebbe un grande problema se non arrivasse a spiccare al negativo proprio la totale scomparsa del contatto con la famiglia quando Jann arriva ad essere ammesso alla GT Academy, step clamoroso nella sua vita – non lo chiamano, non si sentono, non ne seguono i progressi.
Insomma, Gran Turismo mette sotto al naso una dinamica e poi la lascia lì, con un crescendo a tappe programmatiche del tutto anticlimatico e privo di pathos. Sintomi di distrattezza e confusione, e la ragione sta nel fatto che il film occupa gran parte di questo spazio a glorificare persone (il creatore del simulatore, Kazunori Yamauchi), progetti inediti (la GT Academy stessa) e sponsor (la casa automobilistica Nissan).
Si arriva allora al secondo motivo, quello che fa domandare cosa Gran Turismo voglia vendere. Il gioco probabilmente no: il film è rivolto in prevalenza a quei fan che dal videoludico provengono. Allora le automobili? A un certo punto il capo marketing Nissan (Orlando Bloom) afferma di voler ravvivare in questi gamer «il sogno di guidare». Ma pare un po’ un controsenso, un’invasione di campo alla quale è difficile credere. Sembra piuttosto che Gran Turismo resti compresso in un cortocircuito che lo vuole product placement a se stesso e ai partner che lo hanno reso tale, fuso assieme alla retorica di un comodo “chiunque può farcela” – anche se gli ammessi alla GT Academy sono tutti belli, aitanti e videogenici.
Quando questa lunga pubblicità a un qualcosa di già venduto comincia a farsi indigesta, il lato sportivo vero e proprio arriva a fare capolino. Ma è forse troppo tardi. Ed è un peccato perché si vede come Gran Turismo stia in realtà tutto lì. Si vede come la seconda ora del film sia quella che meglio concilia l’impulso registico di Blomkamp – che quando ha spazio per farlo ha un ottimo controllo sulla gestione dell’adrenalina – alla narrazione biografica che il film sceglie di adottare.
Si instaura l’’immancabile rapporto allievo-mentore (che qui ha le sembianze di David Harbour) e il resto lo fa la storia di Mardenborough che è appassionante di suo, fatta di svolte, frenate ed accelerazioni sopra le quali basta apporre il rombo delle automobili e lo sfrigolare degli pneumatici per trarne qualcosa di buono. È un classico racconto di un pilota e della sua vettura, di caduta e di rinascita, sulla quale si innesta un linguaggio visivo che fonde, come sempre più spesso accade, cinema ed esperienza videoludica.
Si arriva a tutto questo però già annoiati, distaccati in maniera irreparabile e anche un po’ spaesati dalla freddezza che ha tenuto a distanza fino a quel momento. Non ci si spiega perché Gran Turismo sia così nettamente scisso in più anime che faticano a dialogare, su perché debba vendersi a suon di nomi e sponsor invece di fare quello che ha sempre saputo fare meglio degli altri: ingranare la marcia, stringere il volante e premere l’acceleratore.