L’esordio del regista danese è un’opera matura, con tre interpretazioni forti e decisive.
Madame Ida è un lungometraggio d’esordio, ma Jacob Møller, che lo scrive e dirige, ha già le idee chiarissime. L’autore danese, che presenta la sua opera in anteprima assoluta nel Concorso del Torino Film Festival 2024, allestisce un racconto di maternità ripartito in un triangolo femminile che abita un ingrigito casale di memorie e fantasmi mentali. C’è un’orfana che porta in grembo un futuro nascituro, Cecilia (Flora Ofelia Hofmann Lindahl). C’è la ricca proprietaria della casa che sogna un figlio ma non può più averne, Ida (Christine Albeck Børge). E poi la domestica, Alma (Karen-Lise Mynster), asse portante di un palazzo di cui è “parte dell’arredamento”.
E lo diciamo subito, le tre interpreti sono fenomenali. Vertici di insistenze e resistenze, in rapporto precario e di necessità, di avvicinamento e poi abbandono. Cecilia, quindicenne, è infatti ospitata da Ida durante il periodo della gravidanza. Al termine della quale dovrà però tornare in orfanotrofio, dove quella gravidanza le è stata procurata da un altro ragazzo, dicono i direttori, ma dove dietro in realtà c’è forse l’abuso da parte di qualcun altro.
I toni di una tragedia

Il frutto che porta in grembo la ragazza è allora da subito oggetto di una distorsione, di una bugia, di una forzatura. Un vettore dove la volontà affoga nella violenza. Ed è su questa consapevolezza di fondo che si muove l’intero lavoro di Møller, che fa insaccare Cecilia nelle spalle e le scava l’ombra sotto gli occhi (guardateli: quelli del finale sono gli stessi dell’inizio del film). Notevole la consapevolezza del regista, già profondamente conscio di dove andare a posizionarsi con la macchina da presa e soprattutto di come posizionare la scena, i conflitti e i suoi personaggi all’interno dell’inquadratura, sempre rigorosa e smaccatamente ‘d’autore’, tra piani sequenza e dilatazioni temporali.
L’altra metà del lavoro la fa poi la fotografia di Stroud Rohde Pearce, che si pone in concerto a composizione e luci pittoriche, impennate nella costruzione di un’atmosfera incubale e misterica. In queste pareti albergano davvero spiriti e sospiri? Una domanda a cui si uniscono pure le scenografie decadenti di Amalie Skovhus Petersen e la musica imperiosa di Kaspar Kaae, che sottolineano l’epica di quella che minuto dopo minuto si inasprisce nei toni di una tragedia volutamente esasperata ed esasperante.
Una storia di cupi malesseri

Probabilmente meglio la prima parte di Madame Ida che la seconda, in cui il film lavora più con le parole e meno con la costruzione di senso nello sguardo e nelle interazioni. E dove la regia di Møller si spezza, si scardina, iniziando a seguire i nervosismi in odore di delirio in cui scade a un certo punto il racconto, che esce di controllo e si fa affresco di una carneficina morale e psicologica.
Nella figura di Ida esplodono allora gli estremi ingovernabili di una bipolarità sofferente, un malessere profondo e catatonico confinante con la malignità, in realtà sintomo di una caduta della ragione che fa esplodere le traiettorie in cui soffocano le tre protagoniste. Vittime e carnefici si confondono in uno spazio intermedio, cupo, dove Madame Ida racconta il dolore come motrice di un’esistenza privata dell’amore, sentimento che fatica a sopravvivere persino nel finale, dove la speranza del futuro lotta con l’insita condanna di una storia destinata forse a ripetersi.
Una figlia, l’intervista al regista Ivano De Matteo, che ci ha parlato dei temi dietro al film con protagonisti Stefano Accorsi e Ginevra Francesconi.