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Alessio Zuccari
Mickey 17: recensione del film di Bong Joon-ho
Tags: bong joon-ho, mark ruffalo, Mickey 17, Naomi Ackie, robert pattinson, Steven Yeun, toni collette
Sei anni dopo Parasite, uno dei film più centrati di questo secolo, Bong Joon-ho torna negli Stati Uniti con il rocambolesco, eccentrico, sbilenco Mickey 17. Una terra dei balocchi a cui chiede un grosso budget (118 milioni di dollari), una sostanziale carta bianca (l’opera la scrive anche, a partire dal romanzo Mickey7 di Edward Ashton) e uno dei più grandi talenti della sua generazione, Robert Pattinson. Pacchetto Hollywood all inclusive per un autore che ogni volta che mette piede nel moralmente derelitto Paese a stelle e strisce ne usa gli strumenti produttivi per fondere l’aspirazione cinematografica, il sci-fi, alla parabola edificante, la satira socio-politica.
Qualcosa che Bong Joon-ho aveva già fatto con Snowpiercer nel 2013 (produzione anche coreana) e Okja nel 2017, e che ora torna a fare con quello che è il suo lavoro più apertamente divertente, tanto aspro quanto concesso all’anima da saltimbanco. Per inquadrarlo basta guardare il suo protagonista, il Mickey di un Pattinson in grandissimo lavoro di remissione linguistica sul corpo e sulla voce, un buffo e imbranato ragazzo che scappa dalla Terra dove lui e il suo compare Timo (Steven Yeun) sono braccati da uno strozzino senza tanti scrupoli.
Come loro, scappano da una Terra funestata dai cambiamenti climatici anche tanti altri. Si imbarcano su navi spaziali alla ricerca di un qualcosa di meglio, là, tra le stelle, sotto la guida di sciroccati individui come Kenneth Marshall (Mark Ruffalo), personaggio ponte fra le figure del tech-bro e del politico estremista (ibrido Musk-Trump, gli attuali inquilini della Casa Bianca). Scarto però fallito di un’ideologia economico-religiosa (nel film ‘chiesa’ è utilizzato come sinonimo di ‘azienda’) che in questo futuro di problemi troppo complessi Mickey 17 si auspica di vedere relegati come una setta fuori dall’orbita terrestre.
Ma è tutt’altro che perfetto, questo Mickey 17. Vuole dire, fare ed essere un sacco di cose contemporaneamente. A partire da una riflessione sull’etica tecnico-scientifica. Mickey è infatti un ‘sacrificabile’, cioè una cavia volontaria per esperimenti mortali e missioni pericolose dove spesso finisce per rimetterci la pelle. Ogni volta che muore, viene immediatamente clonato da zero con una stampante 3D. La memoria gli rimane, e tutti quelli che gli stanno attorno gli chiedono che effetto faccia morire, stupiti da quanto uno possa essere fesso da scegliere un destino simile. Un bel problema esce allora fuori quando un Mickey viene dato per morto e ne viene stampato un altro, lasciandone così esistenti due allo stesso tempo e creando il problema dei ‘multipli’, considerati illegali per una serie di precedenti che il film racconta nel dettaglio. (A proposito: avete notato quanto si parla di doppi e “paralleli” nel cinema contemporaneo, e come spesso la possibilità di un sé alternativo va a braccetto con la paura di perdere il baricentro delle proprie sicurezze? La dice lunga sullo spirito del nostro tempo.)
C’è quindi l’evidente satira politica à la Starhip Troopers. In questo scenario di avanzatissima ricerca tecnologica, Bong Joon-ho descrive un regime colonizzatore e fascistoide che si considera superiore da un punto di vista evolutivo, mentre però fa anche il controcanto del mostro (figura che attraversa la carriera del regista, da The Host a Okja, in una certa misura persino Parasite), qui i vermoni nativi del pianeta Nilfheim ribattezzati ‘striscianti’, che forse tanto mostro non sono. Perché forse il mostro è in grado di pensare, forse di parlare e forse persino di farlo meglio di noi, che siamo ospiti in un dove che non ci appartiene per natura. Ma che ci appartiene per elezione, direbbe appunto qualcuno come Marshall, che sogna un mondo asservito alla razza pura.
Mentre i maschi giocano a tirarsi i sassi, c’è allora pure l’idea di un femminile più recettivo ai cambiamenti sociali e meno impantanato nelle convenzioni. Al negativo la mefistofelica moglie di Marshall, Ylfa (Toni Collette), ma soprattutto al positivo la Nasha di Naomi Ackie, partner di Mickey che nel momento in cui se ne ritrova due davanti non si fa poi tanti problemi. Coltiva anzi con ironia erotico-amorosa la fantasia di una sessualità meno rigidamente definita; se si è in tre, in tre si può fare qualcosa e non necessariamente la guerra.
E tra i tanti toni e direzioni inseguite dal film, sempre sotto il cappello di un umorismo a volte più assurdo, a volte molto meno ficcante, si infiltra anche la pulsione incontrollata verso i regimi scopici. Con telecamere che riprendono ogni cosa di continuo, osservano e certificano l’avvenire di questo o quell’evento, anestetizzate e anestetizzanti persino davanti l’atto di crudeltà più gratuito e brutale – su un neonato, di un’altra specie.
Il fatto è che Mickey 17 tutte queste cose le ha, sì, ma in 137 minuti le sfiamma fuori in una maniera mai uniforme, mai organica nell’attestare con decisione il compromesso tra l’intrattenimento a largo consumo e il quantitativo fluviale di suggestioni che passano per la testa di Bong Joon-ho. Per capirlo è sufficiente osservare l’utilizzo dei personaggi, soprattutto i secondari (Timo, ma anche la Kai di Anamaria Vartolomei), che vanno, vengono, settano dinamiche e tensioni, ma lo fanno entrando e uscendo di scena in maniera piuttosto brusca. Insomma, l’ottavo rintocco di carriera dell’autore sudcoreano è un atto medio, soprattutto mediato tra diverse istanze. Tanto bislacco da non volergli almeno un po’ bene, quanto altalenante da non metterlo tra le cose da amare.
Mickey 17 è al cinema dal 6 marzo con Warnes Bros. Italia.