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Alessio Zuccari
Light & Magic 2: "Questa stagione racconta l'avvento del digitale, che ha cambiato tutto"
Giunge al termine The White Lotus 3, una stagione che chiude un cerchio tragico e profondamente umano.
Il finale della terza stagione di The White Lotus, ambientato tra le luminose spiagge della Thailandia e le ombre dei traumi irrisolti, chiude un cerchio tragico e profondamente umano. Un epilogo che, se da un lato delude chi si aspettava colpi di scena sorprendenti, dall’altro conferma il talento della serie nel costruire archi narrativi che riflettono sulle conseguenze delle nostre azioni, sul peso del passato e sull’illusione del controllo. Un episodio che non cerca la sorpresa fine a sé stessa, ma affonda con eleganza e ferocia in temi universali: la colpa, il dolore, la vendetta, e la tragica speranza che affrontarli significhi annullarli.
Il cuore pulsante della puntata di 90 minuti è il personaggio di Rick (Walton Goggins), divorato dal sospetto che la morte del padre sia legata all’influenza oscura di Jim Hollinger (Scott Glenn), proprietario del resort. Il desiderio di vendetta – quel “debito karmico” che Rick si sente in dovere di saldare – lo conduce a un gesto irreversibile: uccide Jim. Ma in un gioco di specchi doloroso, scopre che Jim era in realtà il suo vero padre biologico. Nella sparatoria che ne segue, la compagna di Rick, Chelsea (l’incredibile e talentuosa Aimee Lou Wood), viene colpita mortalmente. È qui che The White Lotus ribadisce il suo messaggio più potente: la sofferenza genera altra sofferenza, e la vendetta – travestita da giustizia – non fa che moltiplicare il dolore.
La tragedia si specchia anche nel dramma della famiglia Ratliff. Timothy (Jason Isaacs), patriarca logorato dal fallimento personale ed economico, contempla un gesto orribile: eliminare la propria famiglia per sottrarla alla rovina. Sarà il caso – o il destino – a colpire: Lochlan (Sam Nivola), il figlio più piccolo, ingerisce accidentalmente uno dei frutti avvelenati. In questa parabola disturbante, The White Lotus racconta la degenerazione di chi, pur di non affrontare il disfacimento, preferisce la morte simbolica (o reale) alla vulnerabilità. Non è solo il karma a colpire: è l’incapacità di affrontare il dolore, la scelta di nasconderlo sotto una maschera di apparente perfezione.
Gaitok (Tayme Thapthimthong), personaggio etereo e radicato nella spiritualità del luogo, rompe il suo voto di non violenza uccidendo Rick. Una scelta che pesa come una frattura interiore. Per quanto mosso da compassione, anche lui si ritrova contaminato da quel ciclo karmico che la serie racconta con lucida spietatezza: non si esce indenni da una spirale di dolore, nemmeno quando si crede di essere superiori ad essa. Il suo futuro? Non più a servizio della propria comunità, ma della potente Sritala (Ming-Na Wen), simbolo di un mondo che assorbe tutto e lo trasforma in potere. Gaitok rappresenta il conflitto interiore tra idealismo e compromesso: anche chi sembra integerrimo ha un prezzo, soprattutto quando si trova davanti alla possibilità di un riscatto economico e sociale.
E lo stesso vale per Belinda (Natasha Rothwell), che nella terza stagione torna in scena solo per dimostrare quanto anche i personaggi più moralmente saldi possano vacillare. Dopo anni passati a cercare di mantenere la propria integrità, accetta il denaro di Greg (Jon Gries) in cambio del suo silenzio. Non più vittima, ma complice. Non più ingenua, ma perfettamente consapevole. E allora ci si chiede: fino a che punto l’integrità è un valore assoluto? E quando, invece, diventa solo una maschera per sopravvivere?
Laurie (Carrie Coon), invece, è forse l’unico personaggio che si avvicina a una forma di catarsi. Dopo una stagione di inquietudini, trova finalmente una quieta consapevolezza: il senso della vita non si trova nella fuga o nella reinvenzione continua, ma nella presenza, nei legami veri, nel coraggio di restare. È la sua, forse, la sola nota di speranza.
Dal punto di vista autoriale, la terza stagione si presenta come la più coesa e profondamente meditativa del trittico ideato da Mike White. Più spirituale della prima, meno perfettamente strutturata ma più viscerale della seconda, questa stagione segna una nuova maturità narrativa. White si conferma come uno dei più acuti osservatori della psiche contemporanea, capace di intrecciare satira, tragedia e filosofia in un mosaico straordinariamente lucido. The White Lotus non è più (solo) una serie di successo: è un’opera d’arte televisiva. Le candidature agli Emmy fioccheranno, e sarebbero meritatissime.
In conclusione, The White Lotus 3 non chiude con un’esplosione, ma con un’implosione dell’anima. Nessuno esce veramente salvo, perché nessuno può redimersi senza prima attraversare la propria oscurità.
Chi rifiuta di lasciar andare il passato, ne diventa prigioniero.
Chi crede che il dolore possa essere nascosto, lo condanna a tornare con più forza.
Il karma, come l’arte di Mike White, non dimentica.